VERSO IL PAESE DEGLI DEI
seguono: Verso il Paese degli Dei Andiamo. Prendiamo per questo sentiero. La via non è lunga. Il sentiero discende rapido, incassato tra due pareti di roccia che nulla ci lasciano più scorgere se non, sopra di noi, li cielo di azzurro e di sole. Come — d’un tratto — sembra lontana la strada maestra incisa di trite orme e di carreggiate! Pochi passi ancora. Un'aria fresca e salsa, ecco, già viene incontro e ci alita in viso; ecco, già. Di tra le rocce, sbuchiamo in una conca marina. È una piccola conca segreta che un cerchio di colline qua rupestri, là frondeggianti, recinge una stesa di vena, soffice all’occhio e al passo come velluto, conduce verso l’acqua subito, oltre la riva, profonda. Sull’acqua tranquilla e verdazzurra di colli e di cielo riflessi dondola ormeggiato un naviglio: una sottile navicella che drizza l’albero traversato da un pennone su cui la vela è raccolta e che ha già nelle scalmiere lunghi remi pronti alla voga. Il
cerchio dei colli apre, verso l’oriente,
passaggio all’alto
mare: e il mare, oltre il varco, si spiana
e trepida
e lustreggia tutto pagliuzze d’oro. Vedete?
il navarco accenna che ci si affretti e
si appresta a sciogliere l’ormeggio. Saliamo. Un
ordine, la
passerella è tolta; i remi si tuffano concordi; la
nave scivola
sullo specchio delle acque verso il libero mare. Gli uomini badano al timone, alle scotte, alle faccende di bordo. Sono gente di varia età: quali giovini, quali maturi e quali sono imberbi e quali portano corte barbe arsicce; hanno volti adusti dal sole e dal vento, bruni capelli ricciuti che una benda trattiene sulla fronte e occhi ridenti e sognanti. Vestono tuniche succinte. E
parlano un’antica lingua, che forse è il latino di
Ennio forse
il greco di Omero. Mare,
mare. Sotto il sole, sotto le stelle. Tra
un seminìo
di isole, lungo terre intagliate di golfi. Ed
ecco che
navighiamo in un vasto golfo. È l’alba. Dinanzi
a Sbarchiamo.
Tra montagna e montagna qui scende un
piccolo fiume e sfocia con chiare acque; lungo il
fiume un
sentiero si avvia a risalire la valle. Per qui —
ci addita
il navarco — è il nostro cammino. Andiamo. Ma
quassù — come vi siamo giunti? —
quassù è la serenità
perfetta. Un cielo di immacolato azzurro è sul nostro
capo. Alito di vento non muove la quiete dell’aria, Fresche
risa, alate parole si alternano ai lunghi sorsi. Nove
giovani donne cantano in coro un canto grave
e soave
e muovono intanto volubili passi di danza. Sulla
terra i templi sono vuoti, sugli altari i fuochi Luogo: Impero Romano: Nel 386 e.v. 16 giugno, veniva emanato un editto che metteva fuorilegge la cura dei templi pagani LA NASCITA DEGLI DEI (Vai inizio pagina) Prima che tutto cominciasse c’era solo uno spazio tenebroso e vuoto: il Caos. Il Caos non aveva avuto principio: mai. Durava da sempre, dall’eternità. - A
un certo punto di quel tempo senza tempo,
nel Caos,
apparve una divinità, una Dea dai larghi
fianchi, Gea,
la Terra; e dopo Gea apparve l’Amore, il Dio
che addolcisse
le anime; e dopo ancora apparvero
l’Erebo, misteriosa
divinità di quelle tenebre eterne, e la
Notte, buia
Dea anch’essa misteriosa, ma tuttavia non
più Gea
intanto procreava Urano, il cielo stellato,
Ponto, il
mare dalle onde sonanti, e le alte montagne. Il
giovine universo vide nascere i figli di Urano
e di
Gea, Dei primigeni: i dodici smisurati Titani,
sei maschi
e sei femmine; i tre Ciclopi — Bronte, il tuono, Questi
suoi figli Urano li guardava con onore,
forse anche
li temeva: e via via che nascevano si
affrettava a
relegarli nelle più lontane profondità della
terra. Il
sangue di Urano colà sulla terra, i brandelli
della sua
carne caddero nel mare; e dal sangue nacquero
le Erinni,
ossia le Furie vendicatrici, i Giganti armati di Regnava
possente, ma non senza inquietudine. Egli aveva
sposato Rea, figlia di Gea e di Urano, e da
un oracolo
gli era stato predetto che uno dei suoi figli lo Vesta... Cerere... Giunone... Plutone... Nettuno... Cinque figli
aveva già per tal modo tolti di mezzo, quando Rea
delusa e crucciata, sapendo che presto un
altro tiglio
le sarebbe nato, per consiglio dei suoi genitori
si ritirò
a Creta, in una profonda caverna del monte Ida e,
come il nuovo bimbo venne alla vita, ella,
lasciandolo ben
nascosto nell’antro, salì al cielo portando con
sè una Quando
ebbe gli anni e la forza, Giove salì al cielo, si
presentò al padre, lo costrinse a inghiottire un
beveraggio che
gli fece rendere alla luce la pietra e i
cinque figlioli
trangugiati. Poi, lo balzò dal trono e iniziò
il LE GUERRE DEGLI DEI (Vai inizio pagina) Saturno invocò l'aiuto dei fratelli e venne alla riscossa. Quattro Titani solamente si strinsero intorno a Giove: tutti gli altri parteggiano per il fratello spodestato. E la guerra scoppiò terribile. Durò dieci anni. I
Per dieci anni dal le cime del monte Otri,
fronteggiante l’Olimpo.
i Titani furibondi sferrarono assalti sopra
assalti e sempre l’esito pendeva incerto.
Finalmente I Ciclopi gli fornirono le folgori, i Centimani misero al suo servizio le loro cento braccia; e la battaglia si riaccese riaccese violenta. I Centimani scagliarono macigni enormi contro i Titani. Imperterriti i Titani moltiplicarono gli sforzi. La terra rimbombava: Il mare tutt'intorno mugghiava: il
cielo squassato oscillava. Gemeva l’Olimpo. Un tremito
scendeva
fino al Tartaro per e il grandinar delle rupi ; saette
sibilavano ed
alte grida salivano al cielo stellato. Giove
non contenendo più la propria collera, era entrato
anch’egli
direttamente nella lotta, e dal cielo e dall'Olimpo
lanciava saette.
Dalla sua
mano infaticata le folgori di fuoco gli
volavano via
senza posa tra lampi e tuoni. Le
montagne nelle fiamme fremevano, crepitavano
le selve,
e la terra e i flutti dell’Oceano e il mare
immenso ribollivano.
Il fuoco avvolse i Titani in una vampa Vinti
furono oppressi di catene e precipitati negli abissi,
tanto lontani
dalla superficie della terra quanto la terra è lontana
dal
cielo. Saturno
fu incatenato così nella regione che è sotto
la o
il mare, o forse fu relegato nella remotissima
Tule, Regnava: gli nascevano numerosissimi figli; ma il suo regno non era tuttavia sicuro: Gea non aveva perdonato. E
suscitò contro Giove il gigante Tifeo. che ella
aveva procreato
unendosi col Tartaro. Era Tifeo un
pauroso gigante
che superava in altezza ogni montagna e toccava Giove
languiva in prigionia, allorché per sua buona sorte
Mercurio
seppe
ritrovarlo, con l'inganno e l'abilità rubò i
tendini di Giove a
Tifeo e
ridando prima la libertà e poi l’uso
dell’antico vigore. Ma
ancora non ebbe nè sicurezza né pace: subito
gli mossero
guerra nuovi possenti nemici: i
Giganti generatisi dal nero sangue di Urano e della
Terra. ALBA DELL' UMANITA' (Vai inizio pagina) Giapeto, uno (lei dodici Titani, aveva avuto quattro figli: Menezio e Atlante, Prometeo ed Epimeteo. I primi due avevano preso parte alla rivolta contro Giove e Giove li aveva puniti : Menezio, per la sua cattiveria e per la sua tracotante audacia. era stato relegato nell'Erebo profondo; Atlante, di fronte al giardino delle Esperidi, ai confini della terra, doveva sostenere sulle spalle e reggere con le braccia la grande volta del cielo. Prometeo, scaltro (non per nulla il suo nome significava " colui che prevede"), prima si era mantenuto neutrale e poi, quando la lotta aveva accennato a piegare in favore di Giove, si era accostato al vincitore: in premio era stato ammesso all'Olimpo e alla familiarita' coli gli Immortali. Ma il suo cuore di Titano covava il dolore per la propria stirpe umiliata e volgeva ogni predilezione verso gli uomini. Che, con gli Dei, uomini popolavano la terra. Forse erano nati al tempo stesso degli Dei ed erano figli della feconda Gea, la Terra, madre di tutte le cose e di tutti oli esseri animati; o forse li aveva creati Giove, che da Pima aveva fatto nascere Elleno, capostipite degli Elleni, e da Dia, Piritoo, re dei Lapiti, e, da Taigete. Lacedemone, progenitore degli Spartani, e cosi via; o forse avevano avuto altre origini: ma certamente vivevano da lunghissimi anni ed erano passati per cinque ere, ciascuna delle quali aveva avuto una sua propria gente. La prima eta' era stata quella dell'oro, sotto il regno di Saturno. Gli uomini, generati dagli Dei, avevano allora goduto di una perfetta felicita'. La terra produceva per essi ogni bene spontaneamente ed essi vivevano come Dei, senza affanni, senza fatiche, senza vecchiezza. Erano pero soggetti alla morte; e come l'ora ne giungeva, si addormentavano di mi dolce sonno. Quando la famiglia di questi primi uomini si era estinta, i loro spiriti erano divenuti geni benefici, custodi dei mortali, dispensatori della ricchezza. Era seguita l'eta' dell' argento. Ma i popoli di questa eta', pur creati anch'essi dagli Dei, erano esseri deboli e inetti, la cui vita non si svolgeva se non come una lunga infanzia. Quando raggiungevano l'adolescenza, quasi subito morivano vittime della propria stoltezza. Cosi avevano avuto fine anche questi uomini. Morti, erano diventati geni buoni, ma sotterranei. Figli dei frassini, i popoli della terza. eta', detta del bronzo, possedevano cuori duri come il metallo e braccia di inesausto vigore: ma l'indomabile forza e l'ardore di guerra li avevano spinti a sgozzarsi vicendevolmente, sicche' erano sprofondati nell'Ade senza gloria, anche se proprio a loro l'umanita' doveva i primi tentativi di civilta' e la prima lavorazione dei metalli. Spenti gli uomini dell'eta' del bronzo, Giove aveva creato una gente migliore: quella degli eroi. Gli eroi avevano compiuto grandi gesta, avevano combattuto a Tebe e a Troia, avevano affrontato e ucciso mostri e briganti. Dopo la morte erano stati posti nell'isola dei Beati, sulle rive del. fiume Oceano, che circondava la terra e ne segnava i limiti estremi. E infine era seguita l'eta' del ferro, che tuttavia per durava, dolorante di sofferenze, di miserie, di delitti, di empieta'. Durante la prima eta', regnando Saturno, tra gli Dei e gli uomini c'era stato completo accordo. Comuni tra loro i banchetti, comuni erano state le assemblee. Ma con l'avvento di Giove tutto cambio' perche' questi volle imporre anche agli uomini la propria divina supremazia. un' assemblea si raduno' per stabilire la parte che di ogni vittima sacrificata doveva toccare agli Dei e la parte che sarebbe toccata ai mortali. Incaricato della spartizione fu Prometeo, il quale prese un grosso bue, lo uccise, lo ridusse in pezzi e ne fece due mucchi; da un lato pose la pelle sotto cui aveva nascosto la carne e i bocconi migliori, dall'altro - e questo mucchio, come era naturale, risulto' il piu' grande e il piu' appariscente - accumulo' tutte le ossa ben ravvolte di candido grasso. Invitato a scegliere, Giove, illuso dal volume e dal biancore, prese per se' il secondo mucchio: ma, subito avvistosi dell'inganno, si adiro' e, per far dispetto a Prometeo, privo' gli uomini del fuoco inestinguibile che con la propria folgore aveva acceso sulla terra. Prometeo, senza porre tempo in mezzo, sali all'Olimpo. Rapi agli Dei alcune scintille del fuoco divino, le nascose nella cavita' di un giunco e riporto' il fuoco agli uomini. Ancora piu' sdegnato, Giove penso' a punire Prometeo . Per ordine suo, Vulcano con l'aiuto di Cratos - la Forza - e di Bia - la Violenza - afferro' Prometeo e lo incateno' su un'alta cima (lei Caucaso, nella Scizia poi Giove mando' un'aquila, la quale ogni giorno rodeva al Titano il fegato che ogni notte rinasceva. Il sole, i geli, i venti, le piogge sferzavano e mordevano il prigioniero: ogni mattino l'aquila tornava affamata e implacabile; ma il Titano non piegava l'animo, non si umiliava a preghiere e lamenti. Trent'anni trascorsero cosi nell'atroce supplizio. Finalmente Giove si mosse a indulgenza. Diciamo tutta la verita': gli premeva anche di conoscere un grave segreto che lo riguardava e che Prometeo custodiva. Col permesso, dunque, del Dio, Ercole sali sul Caucaso, uccise l'aquila, spezzo' le catene: e Prometeo, liberato, ascese immortale all'Olimpo. Anche gli uomini, colpevoli di godere il fuoco rubato, vennero puniti: Giove decreto' il castigo e fu castigo senza fine. Per suo volere Vulcano, il fabbro divino, modello' con argilla intrisa d'acqua il simulacro di una fanciulla bella come le bellissime Dee e le diede vita e voce e sorriso. Tutti gli Dei la ornarono dei loro doni piu' preziosi: e di qui le venne il nome di Pandora, che significa appunto "tutti i doni". Solo Mercurio le pose nel petto un cuore infido e sulle labbra ingannevoli parole. Recando un misterioso vaso coperchiato, Pandora venne come dono di Giove a Epimeteo. Prometeo aveva, si, ammonito il fratello di non accettare nulla da Giove; ma, incauto il suo nome voleva proprio dire "colui che pensa dopo!" ), Epimeteo accolse invece Pandora, se ne innamoro' e la sposo'. Pandora allora (come sia andata la cosa bene non si sa, ma la curiosita', dicono, e' femmina) sollevo' il coperchio del misterioso vaso: e dal vaso si sparsero sulla terra i mali che vi erano rinserrati. Tutte le fatiche, tutte le pene, tutte le dolorose e mortali infermita'. Soltanto una pietosa creatura resto' aggrappata all'orlo del vaso, a consolare o almeno a illudere gli aflitti: la Speranza. Ne' basto' a Giove di aver mandato la funesta Pandora a turbare l'esistenza terrena: egli medito' di sterminare addirittura il genere umano affogandolo nelle acque di un diluvio. Ma Prometeo vegliava ed avverti suo figlio Deucalione del flagello imminente. Deucalione, che regnava allora in Ftia nella Tessaglia, costrui in tutta fretta un'arca di legno, la corredo' di tutto il necessario e con la moglie Pirra, figlia di Epimeteo e di Pandora, vi si rinchiuse non appena le acque cominciarono a sciogliersi dal cielo coprendo la terra e distruggendo ogni essere animato. Nove giorni e nove notti la furia delle acque cesso' e l'arca ristette sulla cima del monte Parnaso. Tosto Deucalione usci all'aperto e offri un sacrificio a Giove protettore dei fuggiaschi: e il Dio, mosso a pieta', gli promise, per mezzo di Mercurio, che avrebbe esaudito un suo desiderio. Deucalione chiese che fosse rinnovata la gente umana, e recatosi con la moglie a interrogare in proposito l'oracolo di Delfo, ne ebbe questa risposta: - Velate le vostre teste e gettate dietro voi le ossa della vostra ava antica. - Sulle prime i due rimasero perplessi; poi capirono: essi
erano pronipoti
di Gea, la Terra;
le ossa della Terra non potevano essere che le pietre.
Velati i capi,
camminarono per la pianura gettando pietre dietro le
proprie spalle;
e le pietre gettate da Deucalione divennero uomini e
quelle gettate
da Pirra si tramutarono in donne. SE TI SENTI IN RISONANZA CON QUESTO SITO Puoi ascoltare nel "Blog" le Metamorfosi Di Ovidio Le Ere della creazione e dell'umanità Apollo e Cupido e Dafne Giove Giunone e Io I
tre episodi in file compresso Illustrazioni di Vsevolode Nicouline e Giannina Lavarello dal testo "Dei ed Eroi" di Eugenio Treves - Casa editrice Giuseppe Principato Milano - 1961 |