Dionisio o Dioniso (Bacco)

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Recensione ed approfondimento del Mito di Dionisio (Bacco)


Dionisio

DIONISIO [Museo Uffizi Firenze- foto dell'auore del sito anticamadre.net]  Cerative Common


 Dioniso, figlio di Semele gloriosa
Io ricorderò: come egli apparve lungo la riva del limpido mare,
su di un promontorio sporgente, simile a un giovanetto
nella prima adolescenza; gli ondeggiavano intorno le belle chiome
scure; sulle spalle vigorose aveva un mantello
purpureo. E presto, nella solida nave,
apparvero veloci, sul cupo mare, pirati
tirreni: li portava la sorte funesta. Essi, al vederlo,
si scambiavano segni fra loro: rapidamente balzarono fuori, e subito
afferrandolo, lo deposero nella loro nave, pieni di gioia nel cuore.
Pensavano infatti ch’egli fosse figlio di re cari a Zeus,
e volevano legarlo con legami indissolubili:
ma i legami non riuscivano a tenerlo, e i vincoli cadevano lontano
dalle sue mani e dai piedi; egli se ne stava seduto e sorrideva,
con gli occhi scuri. Il timoniere, comprendendo,
subito esortò i suoi compagni, e disse:
“Amici, chi è questo dio possente che avete preso, e tentate di legare?
Nemmeno la nave ben costruita riesce a portarlo.
Certo, infatti, egli è Zeus, o Apollo dall’arco d’argento,
o Posidone: poichè non è simile agli uomini mortali,
ma agli Dei che abitano le dimore dell’Olimpo.
Suvvia, lasciamolo andare sulla terra nera,
subito; e non mettete le mani su di lui, che egli, adirato,
non scateni venti furiosi, e grande tempesta”.
Così parlava, e il capo inveì contro di lui con parole di scherno:
“Sciagurato, bada al vento, e spiega con me la vela della nave
Manovrando tutti i cavi: a costui penseranno gli uomini.
Io prevedo che egli verrà fino all’Egitto, o a Cipro,
o fra gl’Iperborei, o più lontano, ma infine
una buona volta ci rivelerà i suoi amici e tutte le ricchezze
e i suoi parenti; poichè un Dio ce lo ha mandato”.
Così dicendo issava l’albero e la vela della nave;
il vento soffiò in piena vela, e i marinai, dai due lati,
tendevano i cavi. Ma ben presto apparvero loro fatti prodigiosi.
Dapprima, sulla veloce nave nera, gorgogliava
vino dolce a bersi, profumato, da cui si effondeva un aroma
soprannaturale: stupore prese tutti i marinai, quando lo videro.
Subito dopo si distesero lungo il bordo superiore della vela
Tralci di vite, da una parte all’altra, e ne pendevano abbondanti
Grappoli; intorno all’albero si avviticchiava una nera edera,
ricca di fiori, su cui crescevano amabili frutti;
e tutti gli scalmi erano inghirlandati. Essi allora, vedendo queste cose,
ordinavano al timoniere di guidare a terra la nave.
Ma il dio, sotto i loro occhi, nella nave, si trasformò in un leone
dallo sguardo pauroso e bieco: essi fuggirono a poppa
e intorno al timoniere dall’animo saggio
si fermarono attoniti: il Dio, d’improvviso balzando,
ghermì il capo; e gli altri, evitando la sorte funesta,
come videro, si gettarono fuori tutti insieme, nel mare divino,
e diventarono delfini. Ma il Dio ebbe pietà del timoniere:
lo trattenne, e gli concesse prospera sorte: e così gli disse:
“Coraggio, nobile vecchio, caro al mio cuore;
io sono Dioniso dagli alti clamori, che generò la madre
Semele, figlia di Cadmo, unendosi in amore con Zeus”.
Salve, o figlio di Semele dal bel volto: non è possibile,
per chi si dimentica di te, comporre un dolce canto.
 
Inno Omerico a Dioniso


DIONISO

« Suol di Tebe, a te giungo. Io son Dïòniso, generato da Giove, e da Semèle figlia di Cadmo, a cui disciolse il grembo del folgore la fiamma.  »
 

(Euripide, Le baccanti)
 

Dioniso, (in greco: Διόνυσος o anche Διώνυσος) è una divinità della mitologia greca.
È identificato a Roma con Bacco e la divinità italica Liber Pater..
In senso più generale, Dioniso rappresentava quell'energia naturale che, per effetto del calore e dell'umidità, portava i frutti delle piante alla piena maturità. Era dunque visto come una divinità benefica per gli uomini da cui dipendevano i doni che la natura stessa offriva: tra questi, l'agiatezza, la cultura, l'ordine sociale e civile. Ma poiché questa energia tendeva a scomparire durante l'inverno, l'immaginazione degli antichi tendeva a concepire talvolta un Dioniso sofferente e perseguitato.
 
Origini

Satiro tiene in braccio Dioniso bambino, marmo, copia Romana del II secolo a.C. da un originale greco di Lisippo (ca. 300 a.C.), Roma, Musei Vaticani.
 
Le notizie relative alle modalità della nascita di Dioniso sono intricate e contrastanti. Sebbene il nome di suo padre, Zeus, è indiscusso, quello di sua madre è invece vittima di numerose interpretazioni di autori. Alcuni dicono che il dio fosse frutto degli amori del dio con Demetra, sua sorella, oppure di Io, o ancora di Lete; altri ancora lo fanno figlio di Dione, oppure di Persefone. .
 
Quest'ultima versione, nonostante non sia molto accettata dai mitografi, non è comunque stata scartata del tutto. In alcune leggende orfiche, la madre di Dioniso è definita "la regina della morte" il che fa appunto pensare a Persefone. Zeus stesso, innamoratosi di sua figlia, che era stata nascosta in una grotta per volere di Demetra, si tramutò in serpente e la raggiunse mentre era intenta a tessere. La fecondò, e la fanciulla partorì così due bambini, Zagreo e lo stesso Dioniso.
 
Tuttavia, la versione generalmente più conosciuta è quella che vuole come madre del dio Semele, figlia di Armonia e di Cadmo, re di Tebe: d'altra parte il suo nome può significare "la sotterranea", se non si riferisca a Selene, la dea Luna, che ribadisce così all'immagine della Terra intesa come grembo oscuro, ma stranamente fecondo, che sottrae la vita alla luce e l'assorbe per riprodurla, in un eterno ciclo di morti e resurrezioni. Anche sulle versioni del concepimento di Dioniso, le tradizioni non concordano: secondo alcuni, Zeus, dopo aver raccolto ciò che rimaneva del corpicino del diletto figlio Zagreo, generato da Persefone e ucciso dai Titani, cucinò il cuore del fanciullo in un brodo che fece bere alla giovane Semele, sua amante. Oppure, il padre degli dei stesso, innamorato perdutamente di Semele, assunse l'aspetto di un mortale per unirsi a lei nel talamo, rendendola incinta di un bambino.
 
L'ennesima scappatella di Zeus con una mortale non restò oscura ad Era, che si poteva ritenere l'unica moglie legittima del dio. Infuriata, e non potendo vendicarsi sul marito, la dea ispirò nelle tre sorelle di Semele invidia per la sorella, che nonostante fosse in età da nubile, poteva vantare già un amante e anche una gravidanza. La povera Semele subì le crudeli beffe di Agave, Ino e Autonoe, le quali criticavano non solo il fatto che fosse già incinta, ma anche che nonostante il concepimento, il padre del bambino non si era ancora deciso a venire fuori e a dichiararsi.
 
 
NASCITA
 
Nel frattempo, la regina degli dei, approfittando di questi contrasti, assunse l'aspetto di una vecchia anziana, Beroe, nutrice della fanciulla, la quale era sua assistente sin dalla nascita. La regina degli dei si presentò quindi a Semele, già incinta da sei mesi, che, credendola la nutrice, cominciò a parlare con lei fino a quando il discorso non cadde sul suo amante. La vecchia mise in guardia Semele, consigliandole di fare una singolare richiesta al suo amante, ovvero quella di rivelarle la propria identità, smettendo di ingannarla e nascondersi; altrimenti avrebbe potuto pensare che il suo aspetto fosse in realtà quello di un mostro. Secondo una versione diversa, Semele era a conoscenza dell'identità del suo amante ed Era l'aveva messo in guardia proprio dal fidarsi del dio, esortandola a esigere una prova della sua vera identità. Suggerì quindi di chiedere a Zeus di presentarsi a lei come quando si presentava al cospetto di Era.
 

Zeus e Semele
 
Dopo qualche tempo, quando Zeus tornò nuovamente dalla sua amante per godere le gioie del sesso, Semele, memore delle parole della vecchia, pregò Zeus di rivelargli la sua identità e di smettere di continuare a fingere. Per timore della gelosia di sua moglie Era, il dio rifiutò, e a questo punto, Semele si oppose al condividere il suo letto con lui. Adirato, Zeus le apparve tra folgori e fulmini accecanti, tanto che la fanciulla, non potendo sopportare il tremendo bagliore, venne incenerita.
Secondo l'altra versione, quando il padre degli dei tornò dalla sua amante, Semele gli chiese di offrirle un regalo ed egli promise di esaudire qualsiasi desiderio della fanciulla. Semele chiese allora al re degli dei di manifestarsi in tutta la sua potenza. Zeus, disperato, fu costretto a realizzare tale richiesta e si recò al cospetto di Semele armato delle sue folgori. Come nella versione precedente, la giovane viene folgorata.
 

Per impedire che il bambino venisse bruciato, Gea, la Terra, fece crescere dell'edera fresca in corrispondenza del feto del bambino; ma Zeus, che non aveva dimenticato il bambino che ella portava in seno, incaricò Ermes (o secondo altri egli stesso), si affrettò a strapparne il feto dal suo ventre e praticò un'incisione sulla sua coscia, nella quale se lo cucì. Qui vi poté maturare altri tre mesi e, passato il tempo necessario, lo fece uscire fuori, perfettamente vivo e formato. Zeus gli diede il nome di Dioniso che appunto vuol dire il "nato due volte" o anche "il fanciullo della doppia porta".
Una tradizione lacone narrava diversamente la storia della nascita di Dioniso: il dio era nato normalmente a Tebe, da Semele, ma Cadmo volle esporre il bambino con la madre in un cofano, in mare. I flutti spinsero il cofano sulla costa della Laconia, dove Semele, che era morta, venne sepolta. Dioniso, invece, rimasto miracolosamente in vita, venne accolto dagli abitanti del posto e allevato.

Infanzia e giovinezza di Dioniso
Il neonato "nato dalla coscia di Zeus" già dalla sua venuta al mondo possedeva delle piccole corna con dei ricciolini serpentini; Zeus lo affidò immediatamente alle cure di Ermes.
Dioniso è il corrispettivo di Bacco, divinità romana, e di Maimone, divinità sarda.

 

Bacco
Dionisio greci - Bacco romani


 
Raggiunta la maturità, Era lo riconobbe come figlio di Zeus, punendolo con la pazzia. Egli vagò insieme al suo tutore Sileno e un gruppo di satiri e baccanti fino in Egitto, dove si batté con i Titani, restituendo ad Ammone lo scettro che questi gli avevano rubato; in seguito si diresse in oriente, verso l'India, sconfiggendo numerosi avversari lungo il suo cammino (tra cui il re di Damasco, che scorticò vivo) e fondando numerose città. Al suo ritorno gli si opposero le amazzoni, che egli aveva già precedentemente respinto fino ad Efeso, ma vennero sbaragliate dal dio e dal suo seguito. Fu allora che decise di tornare in Grecia in tutta la sua gloria divina, come figlio di Zeus; dopo essersi purificato dalla nonna Rea per i delitti commessi durante la pazzia, sbarcò in Tracia, ma lui e il suo seguito vennero respinti dal re Licurgo, che Rea fece impazzire per la sconfitta inferta al dio.
Sottomessa la Tracia, passò in Beozia e poi alle isole dell'Egeo, dove noleggiò una nave da alcuni marinai diretti a Nasso; questi ultimi si rivelarono poi essere pirati che intendevano vendere il dio come schiavo in Asia, ma questi si salvò tramutando in vite l'albero maestro della nave e sé stesso in leone, popolando nel contempo la nave di fantasmi di animali feroci che si muovevano al suono di flauti; i marinai, sconvolti, si gettarono in mare e divennero delfini. Giunse all'isola di Nasso, dove incontrò * Arianna abbandonata da Teseo e la sposò, dopodiché riprese di nuovo il mare per la Grecia.
Sbarcato ad Argo, Perseo gli eresse un tempio perché placasse le donne di quella città, fatte impazzire dal dio come punizione per l'eccidio dei suoi seguaci, permettendo a Dioniso di entrare nell'Olimpo.
 


Dioniso Zagreo
Zagreo (Zαγρεύς), figlio di Zeus che, sotto forma di serpente, si unì alla figlia di Persefone. Tale nome appare per la prima volta nel poema dal VI secolo Alcmenoide, nel quale si dice: Potnia veneranda e Zagreo, tu che sai sopra tutti gli dei. Secondo Diodoro Siculo, i Cretesi consideravano Dioniso figlio di Zeus e Persefone e loro conterraneo. Di fatto gli epiteti di Dioniso a Creta erano Cretogeno, Ctonio, in quanto figlio della regina del mondo sotteraneo, e appunto Zagreo.
 
Secondo il mito, Zeus aveva deciso di fare di Zegreo il suo successore nel dominio del mondo, provocando così l'ira di sua moglie Era. Zeus aveva affidato Zagreo ai Cureti affinchè lo allevassero. Allora Era si rivolse ai Titani, i quali attirarono il piccolo Zagreo offrendogli giochi, lo rapirono, lo fecero a pezzi e divorarono le sue carni. Le parti rimanenti del corpo di Zagreo furono raccolte da Apollo, che le seppellì sul monte Parnaso; Atena invece trovò il cuore ancora palpitante del piccolo e lo portò a Zeus.
 

 
In base alle diverse versioni: Zeus avrebbe mangiato il cuore di Zagreo, poi si sarebbe unito a Semele e questa avrebbe partorito Dioniso. Oppure, Zeus avrebbe fatto mangiare il cuore di Zagreo a Semele che avrebbe dato al dio divorato una seconda vita, generando appunto Dioniso.
Zeus punì i Titani fulminandoli, e dal fumo uscito dai loro corpi in fiamme sarebbero nati gli uomini.
Nei Canti Orfici, nell'elenco dei sovrani degli dei, Dioniso è il sesto; l'ultimo re degli dei, investito da Zeus; il padre lo pone sul trono regale, gli da lo scettro e lo fa re di tutti gli dei. Sempre nei Canti Orfici, Dioniso viene fatto a pezzi dai Titani e ricomposto da Apollo. E, parlando della nascita di Dioniso: La prima è dalla madre, un'altra è dalla coscia, la terza avviene quando, dopo che è stato straziato dai Titani, e dopo che Rea ha rimesso insieme le sue membra, egli ritorna in vita..
 
Un'antica etimologia popolare, farebbe risalire di-agreus (perfetto cacciatore), il nome Zagreo.
 
 
da http://daubau.it/enciclopedia/Dioniso
 
 
 
* Dioniso incontra Arianna
 
Appena sceso sulla spiaggia di Nasso, Dioniso fu attirato dal convulso pianto di una donna. Vide una fanciulla sulla sabbia stesa che si disperava e piangeva, al che il dio le si avvicinò e cominciò a consolarla, vide il volto della giovane e le asciugò le lacrime, si accorse di non aver mai visto una donna così bella e nemmeno tanto disperata; allora pregò la ragazza di raccontargli il motivo di tanto dolore e lei tra pianti e sospiri prese a raccontare. La giovane donna si chiamava Arianna, figlia del re di Creta, Minosse e di Pasifae. Arianna raccontò del suo amore per Teseo, che aveva aiutato nel Labirinto,
 

raccontò della promessa di Teseo di ricambiare il suo aiuto prendendola in sposa e del tradimento del ragazzo che una volta ricevuto l'aiuto abbandonò la giovane fanciulla sulla riva del mare. Dioniso aveva partecipato con tutto il suo animo al racconto di questa storia d'amore e tradimento; quando Arianna smise di piangere si fece riconoscere come dio e le chiese di diventare sua moglie. Sorpresa Arianna taceva, allora Dioniso prese la corona gemmata che portava e la posò sul capo della donna, quel gesto valeva più di un giuramento e Arianna ne comprese subito il significato. Zeus acconsentì alle nozze dal cielo, trasformando quella corona in stelle. Alle nozze assistette tutta la corte di Dioniso, che col capo ricoperto di ghirlande di pampini e agitando il tirso, si mise a cantare un gioioso epitalamio. Un carro d'oro, tirato da sei pantere, trasportò i giovani sposi in una dimora sconosciuta.
 

 
L'arcaicità di alcune feste pubbliche
 
A partire da Pisistrato, si celebravano ad Atene quattro feste in onore di Dioniso [7]. Le ‘Dionisie campestri', che si svolgevano in dicembre, erano feste dei villaggi e consistevano nel portare in processione un fallo di grandi dimensioni con accompagnamento di canti. Cerimonia tipicamente arcaica e ampiamente diffusa in tutto il mondo, la falloforia ha certamente preceduto il culto di Dioniso. Altri divertimenti rituali prevedevano gare e contese, e soprattutto sfilate di maschere o di personaggi travestiti da animali. Anche qui i riti hanno preceduto Dioniso, ma si può intuire come il dio del vino sia giunto a mettersi alla testa del corteo di maschere.
Molto di meno sappiamo invece sulle feste lenee, che si svolgevano in pieno inverno. Una citazione di Eraclito precisa che la parola Lenai e il verbo ‘far le Lenai' venivano usati come equivalenti di ‘baccanti' e di ‘fare la baccante'. Il dio era evocato mediante il daduchos. Secondo una glossa di un verso di Aristofane, il sacerdote eleusino, «con una torcia in mano, esclama: Chiamate il dio! e gli astanti gridano: Figlio di Semele, Iacchos [8], dispensatore di ricchezze!».
 

Le Antesterie erano celebrate approssimativamente in febbraio-marzo, e le ‘Grandi Dionisie', d'istituzione più recente, in marzo-aprile. Tucidite (II, 15, 4) considerava le Antesterie la più antica festa in onore di Dioniso. Era anche la più importante. Il primo giorno si chiamava Pithoigia, apertura dei vasi d'argilla (pithoi) nei quali si conservava il vino dopo il raccolto autunnale. Si portavano i vasi al santuario di ‘Dioniso della palude' per compiere le libagioni al dio, e in seguito si gustava il vino nuovo. Nel s econdo giorno (Choes, le brocche) si svolgeva una gara di bevitori: erano forniti di una brocca che veniva riempita di vino e, al segnale, ne trangugiavano il contenuto il più velocemente possibile. Proprio come certe gare delle ‘Dionisie campestri' (per esempio l'askoliasmos, in cui i giovani cercavano di mantenersi il più a lungo possibile in equilibrio su di un otre previamente oliato), anche questa competizione si
 articola nello scenario ben noto delle gare e dei giochi di ogni specie (sportivi, oratorî, ecc.) che tende al rinnovamento della vita [9]. Ma l'euforia e l'ebbrezza anticipano in un certo qual modo la vita di un aldilà che non assomiglia più al triste mondo omerico.
 
Lo stesso giorno delle Choes si formava un corteo che raffigurava l'arrivo del dio nella città. Poiché si riteneva venisse dal mare, il corteo comprendeva una barca trasportata su quattro ruote di carro, in cui si trovava Dioniso con un grappolo d'uva in mano e due satiri nudi che suonavano il flauto. La processione comprendeva parecchi personaggi probabilmente mascherati, e un toro sacrificale preceduto da un suonatore di flauto e da portatori di ghirlande che si dirigevano verso l'unico santuario aperto quel giorno, l'antico Limnaion. Là si svolgevano diverse cerimonie, a cui partecipavano la Basilimna, la ‘Regina' cioè la moglie dell'Arconte-Re, e quattro dame di alto rango. A partire da questo momento, la Basilimna, erede delle antiche regine della città, era considerata la sposa di Dioniso. Saluva accanto a lui nel carro e un nuovo corteo, di tipo nuziale, si dirigeva verso il Boukoleion, l'antica residenza reale. Aristotele precisa (Cost. di
 Atene, 3, 5) che la ierogamia tra il dio e la regina si consumava nel Boukoleion (lett. ‘stalla del bue') e la scelta di questo luogo indica che l'epifania taurina di Dioniso era ancora ben nota.
 
Si è cercato di interpretare quest'unione in senso simbolico, o supponendo che il dio venisse personificato dall'Arconte. Ma W. Otto sottolinea giustamente l'importanza della testimonianza di Aristotele [10]. La Basilinna riceve il dio nella casa del suo sposo, l'erede dei re - e Dioniso si rivela in quanto re. È probabile che questa unione simboleggi il matrimonio del dio con la città nel suo complesso, con le conseguenze faste che si possono immaginare. Ma è un atto caratteristico di Dioniso, divinità dalle epifanie brutali, che richiede la proclamazione pubblica della sua supremazia. Non si conosce nessun altro culto greco in cui si ritiene che un dio si unisca con la regina.
 
 
I tre giorni delle Antesterie, soprattutto il secondo, quello del trionfo di Dioniso, sono però giorni nefasti, perché segnati dal ritorno delle anime dei morti, e insieme a loro dei keres, portatori di influenze malefiche del mondo infero.
A loro era consacrato l'ultimo giorno delle Antesterie. Si pregava per i morti, si preparavano le panspermie, poltiglie di diversi grani cereali che dovevano essere consumate prima del cader della notte. E, arrivata la notte, si gridava: «Fuori i keres/ Finite le Antesterie!». Lo sfondo rituale è ben noro, ed è attestato un po' ovunque nelle civiltà agricole. I morti e le potenze dell'oltretomba governano la fertilità e le ricchezze, e ne sono i dispensatori. «Dai morti -è scritto in un trattato ippocratic- ci vengono nutrimento, crescita e germe».. In tutte le cerimonie a lui dedicate, Dioniso si rivela al tempo stesso il dio della fertilità e della morte. Eraclito (fr. 15) diceva già che «Ade e Dioniso [...] sono un'unica e medesima persona».
Abbiamo già ricordato il rapporto di Dioniso con le acque, l'umidità e la linfa vegetale. E dobbiamo anche segnalare i ‘miracoli' che accompagnano le sue epifanie, o le annunciano: l'acqua che sgorga dalla roccia, i fiumi che si colmano di latte e miele. A Teos, nel giorno della sua festa, una sorgente fa sgorgare vino in abbondanza (Diodoro Siculo, III, 66, 2). A Elide, tre scodelle vuote, lasciate durante la notte in una camera sigillata, all'indomani vengono ritrovate piene di vino (Pausania, VI, 2, 6, 1-2). ‘Miracoli' di questo tipo sono attestati anche altrove; il più famoso tra questi era quello delle ‘vigne di un giorno', che fiorivano e rpoducevano uva in poche ore, ‘miracolo' che avveniva in diversi luoghi, perché ne parlano parecchi autori [11].
 
   
 
Euripide e le orge dionisiache
 
Simili ‘miracoli' sono specifici del culto sfrenato ed estatico di Dioniso che riflette l'elemento più originale, e probabilmente più antico, del dio. Nelle Baccanti di Euripide troviamo una testimonianza inestimabile di ciò che ha potuto rappresentare l'incontro tra il genio greco e il fenomeno delle orge dionisiache. Lo stesso Dioniso è il protagonista delle Baccanti, fatto senza precedenti nell'antico teatro greco.. Offeso perché il suo culto era ancora ignorato in Grecia, Dioniso arriva dall'Asia con un gruppo di Menadi e si ferma a Tebe, città natale di sua madre. Le tre figlie del re Cadmo negano che la loro sorella, Semele, sia stata amata da Zeus e che abbia generato un Dio. Dioniso le rende ‘folli' e le sue zie, con le altre donne di Tebe, corrono verso la montagna a celebrarvi riti orgiastici. Penteo, che era succeduto al trono a suo nonno Cadmo, aveva proibito il culto e, malgrado gli avvertimenti ricevuti, si ostinava nella sua
 intransigenza. Travestito da officiante del proprio culto, Dioniso è catturato e imprigionato da Penteo. Ma riesce miracolosamente a fuggire e persino a persuadere Penteo ad andare a spiare le donne durante le loro cerimonie orgiastiche. Le Menadi scoprono così Penteo e lo fanno a pezzi: sua madre Agave ne porta in trionfo la testa, credendo che si tratti della testa di un leone [12].
 

 
Qualunque fosse l'intento di Euripide nello scrivere le Baccanti, questo capolavoro della tragedia greca costituisce nello stesso tempo anche il documento più importante del culto dionisiaco, in cui il tema «resistenza, persecuzione e trionfo» trova la sua illustrazione più evidente [13]. Penteo si oppone a Dioniso perché è uno «straniero, un predicatore, un mago [...] dai bei boccoli biondi e profumati, guance di rosa, con negli occhi la grazia di Afrodite. Con il pretesto di insegnare le dolci e seducenti pratiche dell'evoé, corrompe le fanciulle» (233 ss). Le donne vengono incitate ad abbandonare la loro casa e a correre, la notte, per i monti, danzando al suono dei timpani e dei flauti. E Penteo teme soprattutto l'influenza del vino, perché «con le donne, se il liquor d'uva figura sulla mensa, non promette nulla di buono in queste devozioni» (260-262).
Tuttavia non è il vino a provocare l'estasi delle baccanti. Un servo di Penteo, che le aveva sorprese all'alba sul Citerone, le descrive vestite di pelli di cerbiatto, coronate d'edera, cinte di serpenti, che recavano in braccio, allattandoli, cerbiatti o lupacchiotti selvatici (695 ss.). Abbondano i ‘miracoli' tipicamente dionisiaci: le baccanti toccano la roccia con i loro tirsi e subito ne scaturisce l'acqua o ne sgorga il vino; grattano la terra e trovano polle di latte, mentre i tirsi cinti d'edera stillano gocce di miele (703 ss.) «Certo -continua il servo- se tu fossi stato là, questo dio che tu disprezzi, ti saresti convertito a lui, rivolgendogli le tue preghiere, dopo un tale spettacolo» (712-714).
 

Sorpreso da Agave, poco mancò che il servo e i suoi compagni venissero dilaniati. Le baccanti si gettarono allora sugli animali che pascolano nel prato e, «senza nessun ferro in mano» li fanno a brani. «Sotto l'opera delle mille mani delle fanciulle», tori minacciosi sono dilaniati in un batter d'occhio. Le Menadi si abbattono in seguito sulla pianura. «Vanno a strappar via i bambini dalle case. Tutto ciò che si caricano sulle spalle, pur senza esservi attaccato, vi aderisce senza cadere nel fango; anche il bronzo, anche il ferro. Sui loro boccoli il fuoco trascorre senza bruciare.Infuriati per essere stati assaliti dalle baccanti, si corre alle armi. Ed ecco il prodigio che tu, Signore, avresti dovuto vedere: le frecce che si lanciavano contro di loro non facevano sgorgare sangue, ed esse, scagliando il loro tirso, li ferivano...» (754-763).
Inutile sottolineare la differenza tra questi riti notturni, sfrenati e selvaggi, e le feste dionisiache pubbliche, di cui abbiamo parlato prima. Euripide ci presenta un culto segreto, specifico dei Misteri. «Che cosa sono, s econdo te, questi Misteri?» s'informa Penteo. E Dioniso risponde: «La loro segretezza vieta di comunicarli a coloro che non sono baccanti». «Qual è la loro utilità per coloro che li celebrano?» - «Non ti è lecito apprenderlo, ma sono cose degne di essere conosciute» (470-474).
Il Mistero era costituito dalla partecipazione delle baccanti all'epifania totale di Dioniso. I riti vengono celebrati di notte, lontano dalla città, sui monti e nelle foreste. Attraverso il sacrificio della vittima per squartamento (sparagmos) e la consumazione della carne cruda (omofagia) si realizza la comunione con il dio, perché gli animali fatti a brani e divorati sono epifanie, o incarnazioni, di Dioniso. Tutte le altre esperienze -la forza fisica eccezionale, l'invulnerabilità al fuoco e alle armi, i ‘prodigi' (l'acqua, il vino, il latte che scaturiscono dal suolo), la ‘dimestichezza' con i serpenti e i piccoli delle bestie feroci- sono resi possibili dall'entusiasmo, dall'identificazione con il dio. L'estasi dionisiaca significa anzitutto il superamento della condizione umana, la scoperta della liberazione totale, il raggiungimento di una libertà e di una spontaneità inaccessibili ai mortali. Che tra queste libertà ci sia stata anche
 la liberazione dalle proibizioni, dalle regole e dalle convenzioni di tipo etico e sociale, sembra essere certo; e questo spiega in parte l'adesione massiccia delle donne [14]. L'esperienza dionisiaca però raggiungeva livelli più profondi. Le baccanti che divoravano le carni crude ritornavano a un coportamento rimosso da decine di migliaia di anni; sfrenatezze di questo tipo rivelavano una comunione con le forze vitali e cosmiche che si poteva interpretare soltanto come una possessione divina. E non stupisce che la possessione sia stata confusa con la ‘follia', la mania. Dioniso stesso aveva conosciuto la ‘follia', e la baccante si limitava a condividere le prove e la passione del dio, e questo era, in definitiva, uno dei mezzi più sicuri per comunicare con lui.
I Greci conoscevano altri casi di mania provocata da una divinità. Nella tragedia Eracle di Euripide, la follia dell'eroe è opera di Era: nell'Aiace di Sofocle è Atena a produrre lo sconvolgimento psichico. Il ‘coribantismo', che gli antichi del resto accostavano alle orge dionisiache, era una mania provocata dalla possessione dei Coribanti, e tale esperienza sfociava in una vera e propria iniziazione. Ciò che tuttavia contraddistingue Dioniso e il suo culto non sono le crisi psicopatiche, ma il fatto che esse fossero valorizzate in quanto esperienza religiosa: sia come una punizione sia come una grazia del dio [15]. In ultima analisi, l'interesse di un confronto tra riti e movimenti collettivi apparentemente similari -per esempio certe danze sfrenate del Medioevo o l'omofagia rituale degli Aissaua, una confraternita mistica dell'Africa del Nord [16]- sta nel fatto che esso fa emergere l'originalità del dionisismo.
È raro che un dio giunga all'epoca storica pregno di un'eredità così arcaica; riti con maschere teromorfiche, falloforia, sparagmos, omofagia, antropofagia, mania, enthousiasmos. Il fatto più notevole è che, pur conservando quest'eredità, residuo della preistoria, il culto di Dioniso, dopo essersi integrato nell'universo spirituale dei Greci, non ha cessato di creare nuovi valori religiosi. Certo, la frenesia provocata dalla possessione divina -la ‘follia'- dava da pensare a molti autori, e spesso incoraggiava l'ironia e la derisione. Erodoto (IV, 78-80) riferisce l'avventura di un re scita, Skylas, che si era fatto «iniziare ai riti di Dioniso Baccheios» a Olbia sul Boristene (Dniepr). Durante la cerimonia (telete), posseduto dal dio, faceva «il baccante e il folle». Con molta probabilità si trattava di una processione in cui gli iniziati, «sotto il dominio del dio» si lasciavano trascinare da una frenesia che gli astanti, e anche gli
 stessi posseduti, consideravano come ‘follia' (mania).
 

Erodoto si limitava a riferire una storia che gli era stata raccontata a Olbia. Demostene, con l'intenzione di mettere in ridicolo il suo avversario Eschine, ci rivela però in realtà, in un suo celebre passo (Sulla corona, 259), certi riti dei piccoli tiasi (Bacchein) celebrati, nell'Atene del IV secolo, dai fedeli di Sabazios, dio tracio omologo di Dioniso. (Gli antichi lo consideravano d'altra parte come Dioniso tracio nel suo nome indigeno) [17]. Demostene si riferisce ai riti seguiti da letture di ‘libri' (probabilmente un testo scritto, contenente hieroi logoi); parla di ‘nebrizzare' (allusione alla pelle del cerbiatto, la nebride; si trattava forse di un sacrificio con la consumazione dell'animale crudo), di ‘craterizzare' (il bacile in cui si mescolavano l'acqua e il vino, la ‘pozione mistica'), di ‘purificazione' (catharmos), consistente in specie nello sfregare l'iniziato con argilla e farina. Alla fine l'accolito faceva rialzare
 l'iniziato dalla sua posizione prona o supina, e questi ripeteva la formula: «Sono sfuggito al male e ho trovato il meglio». E tutta l'assemblea esplodeva in ololyge. All'indomani si svolgeva la processione degli adepti, col capo coronato di finocchio e di fronde di pioppo bianco. In testa camminava Eschine brandendo serpenti e gridando: «Evoé, misteri di Sabazios!», e danzando al grido di Hyés, Attés, Attés, Hyés. Demostene parla anche di un cesto di forma di vaglio, il liknon, il ‘vaglio mistico', la culla primitiva di Dioniso bambino.
 

 
Sotto le forme più diverse si trova comunque, al centro del rituale dionisiaco, un'esperienza estatica di una frenesia più o meno intensa: la mania Questa ‘follia' costituiva in qualche modo la prova della ‘divinizzazione' (entheos) dell'adepto. L'esperienza era certamente indimenticabile, perché si partecipava alla spontaneità creatrice e alla libertà inebriante, alla forza sovrumana e all'invulnerabilità di Dioniso. La comunione con il dio faceva esplodere per un certo tempo la condizione umana, ma non giungeva affatto a cambiarla. Non ci sono allusioni all'immortalità nelle Baccanti, neppure in un'opera tardiva come le Dionisiache di Nonno. Ciò è sufficiente a distinguere Dioniso da Zalmoxis, con cui lo si confronta, e a volte lo si confonde, in seguito agli studi di Rohde; infatti questo dio dei Geti ‘immortalizzava' gli iniziati nei suoi misteri. Ma i Greci non ardivano ancora colmare la distanza infinita che, ai loro occhi, separava
 la divinità dalla condizione umana.
 
 
Quando i Greci riscoprirono la presenza del Dio...
 
Pare ormai assodato il carattere iniziatico e segreto dei tiasi privati (v. supra, le Baccanti 470-474) [18], benché almeno una parte delle cerimonie (per esempio le processioni) siano state pubbliche. È difficile precisare quando, e in quali circostanze, i riti segreti e iniziatici dionisiaci abbiano assunto la funzione specifica alle religioni dei Misteri. Eminenti studiosi quali Nilsson e Festugière contestano l'esistenza di un Mistero dionisiaco, perché mancano precisi riferimenti alla speranza escatologica. Ma si potrebbe obiettare che, soprattutto per il periodo antico, disponiamo di scarsissime conoscenze dei riti segreti, per non dire poi del loro significato esoterico (che senza dubbio esisteva, dato che i significati esoterici dei riti segreti sono attestati ovunque nel mondo, a tutti i livelli di cultura).
Non si deve inoltre limitare la morfologia della speranza escatologica alle espressioni rese familiari dall'orfismo o dai Misteri dell'epoca ellenistica. L'occultamento e l'epifania di Dioniso, le sue discese agli Inferi (paragonabili a una morte seguita da risurrezione) e soprattutto il culto di Dioniso fanciullo [19], con riti celebranti il suo risveglio -pur tralasciando il tema mitico rituale di Dioniso-Zagreus, su cui ritorneremo tra breve- indicano la volontà, e la speranza, di un rinnovamento spirituale. Il fanciullo divino è pregno, in tutto il mondo, di un simbolismo iniziatico relativo al mistero di una ‘rinascita' d'ordine mistico. (Per l'esperienza religiosa è più o meno indifferente che tale simbolismo sia o non sia ‘compreso' intellettualmente). Ricordiamo che il culto di Sabazios, identificato con Dioniso, presentava già la struttura di un mistero («Sono sfuggito al male!»). È vero che le Baccanti non parlano d'immortalità, ma
 la comunione, anche se provvisoria, con il dio non mancava di influire sulla condizione post mortem del bacchos. La presenza di Dioniso nei Misteri d'Eleusi fa supporre il significato escatologico perlomeno di alcune esperienze orgiastiche.


 
Il carattere ‘misterico' del culto si precisa soprattutto a partire da Dioniso-Zagreus. il mito dello smembramento del fanciullo Dioniso-Zagreus ci è pervenuto soprattutto attraverso autori cristiani [20]. Come prevedibile, essi ce lo presentano evemerizzato, incompleto e in modo piuttosto tendenzioso. Ma proprio perché erano liberi dalla proibizione di parlare apertamente di cose sante e segrete, gli scrittori cristiani ci hanno comunicato molti particolari preziosi. Era invia i Titani, che attirano Dioniso-Zagreus con alcuni balocchi (ninnoli, crepundia, uno specchio, un gioco di aliossi, una palla, una trottola, un rombo), lo massacrano e lo fanno a pezzi. Fanno cuocere i pezzi in un calderone e, secondo certe versioni, lo divorano. Una dea -Atena, Rea o Demetra- riceve, o salva, il cuore e lo pone in un cofanetto. Venuto a sapere del d elitto, Zeus folgora i Titani. Gli autori cristiani non accennano alla resurrezione di Dioniso, ma questo
 episodio era noto agli antichi. L'epicureo Filodemo, contemporaneo di Cicerone, parla delle tre nascite di Dioniso, «la prima da sua madre, la seconda dalla coscia e la terza quando, dopo lo squartamento da parte dei Titani, ritorna in vita dopo che Rea ne ha ricomposto le membra» [21]. Firmico Materno conclude aggiungendo che a Creta (dov'egli ambienta la sua storia evemerizzata) l'assassinio veniva commemorato da riti annuali, che ripetevano ciò che il «fanciullo aveva compiuto e subìto al momento della morte»: «nel profondo della foresta, emettono strani clamori e simulano la follia di un essere furioso», facendo credere che il delitto è stato compiuto in preda a follia e «dilaniano coi denti un toro vivo».
 
 
Il tema mitico-rituale della passione e risurrezione del fanciullo Dioniso-Zagreus ha suscitato interminabili controversie, soprattutto a causa delle sue interpretazioni ‘orfiche'. In questa sede è sufficiente precisare che le informazioni trasmesse dagli autori cristiani sono confermate dagli autori più antichi. Il nome di Zagreus viene menzionato per la prima volta in un poema epico del ciclo tebano, Alcmeone (VI secolo) [22] e significa ‘gran cacciatore', in riferimento al carattere selvaggio e orgiastico di Dioniso. Per quanto riguarda il delitto dei Titani, Pausania (VIII, 37, 5) ci ha trasmesso un'informazione che resta preziosa, malgrado lo scetticismi di Wilamowitz e di altri studiosi: Onomacrito, che viveva ad Atene nel VI secolo, al tempo dei Pisistrati, aveva scritto un poema sul seguente soggetto: «Avendo desunto il nome dei Titani da Omero, aveva fondato alcune orgia di Dioniso, facendo dei titani gli autori delle sofferenze del
 dio». Secondo il mito, i Titani si erano avvicinati al fanciullo divino impiastricciati di gesso per non essere riconosciuti. Orbene, nei misteri di Sabazios celebrati ad Atene, uno dei riti iniziatici consisteva nel cospargere i candidati con una polvere o con del gesso [23] e questi due fatti sono stati accostati sin dall'antichità (cfr. Nonno, Dionys., XXVII, 228 ss.). Si tratta di un rituale arcaico d'iniziazione, ben noto nelle società ‘primitive': i novizi si sfregano sul viso polvere o cenere, allo scopo di assomigliare ai fantasmi; in altri termini, subiscono una morte rituale. Per quanto riguarda i ‘balocchi mistici', essi erano conosciuti già da tempo; in un papiro del II secolo a. C., trovato a Fayyûm (Gouroub), disgraziatamente mutilo, si citano la trottola, il rombo, gli aliossi e lo specchio (Orf. Fr., 31).
 

 
L'episodio più drammatico del mito -e cioè il fatto che, dopo aver squartato il fanciullo, i Titani ne abbiano gettato i pezzi in un calderone, dove li hanno fatti bollire e poi arrostire- era noto, in tutti i suoi particolari, già nel IV secolo e, fatto ancor più significativo, si ricordavano questi particolari in relazione con la ‘celebrazione dei Misteri' [24]. Jeanmaire aveva opportunamente ricordato che la cottura in pentola o il passaggio attraverso il fuoco costituiscono riti iniziatici che conferiscono l'immortalità (cfr. l'episodio di Demeter e Demofonte) o il ringiovanimento (le figlie di Peleo fanno a pezzi il padre e lo cuociono in una pentola) [25]. Aggiungiamo che i due riti -smembramento e cottura o passaggio attraverso il fuoco- caratterizzano le iniziazioni sciamaniche.
Nel ‘delitto dei Titani' si può dunque riconoscere un antico scenario iniziatico di cui si era perduto il significato originario. I Titani si comportano da Maestri d'iniziazione, vale a dire ‘uccidono' il novizio, allo scopo di farlo ‘ri-nascere' a un tipo superiore di esistenza (nel nostro esempio si potrebbe dire che essi conferiscono divinità e immortalità al fanciullo Dioniso). Ma, in una religione che proclamava la supremazia assoluta di Zues, i Titani potevano svolgere soltanto un ruolo demoniaco -e perciò furono fulminati. Secondo alcune varianti, gli uomini sono stati creati dalle loro ceneri -e questo mito ha svolto un ruolo considerevole nell'orfismo.
 

Il carattere iniziatico dei riti dionisiaci si può scorgere anche a Delfi, quando le donne celebravano la rinascita del dio. Infatti il vaglio d elfico «conteneva un Dioniso smembrato e pronto a rinascere, uno Zagreus», come dice Plutarco (De Iside, 35), e questo Dioniso «che rinasceva come Zagreus era allo stesso tempo il Dioniso tebano, figlio di Zeus e di Semele» [26].
Diodoro Siculo sembra riferirsi ai Misteri dionisiaci, quando scrive che «Orfeo ha trasmesso nelle cerimonie dei misteri lo smembramento di Dioniso» (V, 75, 4). E in un altro passo Orfeo viene presentato come un riformatore dei Misteri dionisiaci: È per questo che le iniziazioni dovute a Dioniso sono chiamate orfiche» (III, 65, 6). La tradizione trasmessa da Diodoro è preziosa in quanto conferma l'esistenza dei Misteri dionisiaci. Ma è probabile che già nel V secolo questi Misteri avessero mutuato alcuni elementi ‘orfici', e in effetti Orfeo era proclmato «profeta di Dioniso» e «fondatore di tutte le iniziazioni» (v. cap. XIX, vol. II).
 
Più ancora degli altri dèi greci, Dioniso sorprende per la molteplicità e la novità delle sue epifanie, per la varietà delle sue trasformazioni. È in perenne movimento; penetra ovunque, in tutti i paesi, presso tutti i popoli, in tutte le religioni, pronto ad associarsi a divinità diverse, anzi perfino antagoniste (per esempio Demetra, Apollo). È, senza dubbio, l'unico dio greco che, rivelandosi sotto aspetti differenti, affascina e attrae tanto i contadini che le élites intellettuali, i politici e i contemplativi, gli orgiastici e gli a sceti. L'ebbrezza, l'erotismo, la fertilità universale, ma anche le esperienze indimenticabili suscitate dal ritorno periodico dei morti, o dalla mania, dallo sprofondare nell'incoscienza animale o dall'estasi dell'enthousiasmos - tutti questi terrori e rivelazioni hanno un'unica origine: la presenza dei dio. La sua natura esprime l'unità paradossale della vita e della morte. Per questo, Dioniso costituisce un
 tipo di divinità radicalmente diverso dagli Olimpî. Era forse, tra tutti gli dèi, il più vicino agli uomini? In ogni caso ci si poteva avvicinare a lui, si giungeva a incorporarlo, e l'estasi della mania dimostrava che la condizione umana poteva essere oltrepassata.
 

Questi rituali erano suscettibili di sviluppi inattesi. Il ditirambo, la tragedia, il dramma satirico sono, in modo più o meno diretto, creazioni dionisiache. È appassionante seguire la trasformazione di un rito collettivo, il dithyrambos, implicante la frenesia estatica, in spettacolo e infine in genere letterario [27]. Se, da un lato, certe liturgie pubbliche sono diventate spettacoli e hanno fatto di Dioniso il Dio del teatro, altri rituali invece, segreti e iniziatici, si sono evoluti in Misteri. Perlomeno indirettamente, l'orfismo è debitore alle tradizioni dionisiache. Più di tutti gli altri dèi olimpici, questo dio giovane non cesserà di gratificare i suoi fedeli con nuove epifanie, messaggi inattesi e speranze escatologiche.
 
Note
[1] Pindaro, fr. 85; Erodoto, II, 146; Euripide, Le Baccanti, 94 ss.; Apollodoro, Bibl., III, 4, 3, ecc.
[2] Iliade, XIV, 323, la definisce «una donna di Tebe», ed Esiodo, Teogonia, 940 ss., una «donna mortale».
[3] Cfr. H. Jeanmaire, Dionysos, p. 76; su Licurgo e le iniziazioni di pubertà, cfr. id., Couroï et Courètes, p. 463 ss.
[4] Si tratta di un frammento di Pilo (X a 0 6) nella lineare B.
[5] Si è cercato di vedere in Dioniso un dio dell'albero, del ‘grano' o della vite, e si è interpretato il mito del suo smembramento come un'illustrazione della ‘passione' dei cereali o la preparazione del vino; già i mitografi citati da Diodoro, III, 62.
[6] Cfr. i testi e i riferimenti discussi da W. Otto, pp. 162-164.
[7] Il fatto che queste due feste portassero i nomi dei mesi corrispondenti -Lenaion e Antesterion- dimostra il loro arcaismo e il loro carattere panellenico.
[8] Fu il genio delle processioni dei Misteri eleusini ad essere assimilato a Dioniso; le fonti sono discusse da W. Otto, op. cit., p. 80; cfr. Jeanmaire, op. cit., p. 47.
[9] Ricordiamo che si tratta di uno scenario estremamente arcaico e diffuso ovunque, uno dei principali retaggi della preistoria che svolge ancora un ruolo privilegiato in ogni forma di società.
[10] Si tratta di un'unione completamente diversa da quella, per esempio, di Bel a Babilonia (la compagnia di una ierodula quando il dio si trovava nel tempio) o della sacerdotessa che doveva dormire nel tempio di Apollo a Patara, allo scopo di ricevere direttamente dal dio la saggezza che poi avrebbe rivelato attraverso l'oracolo; cfr. Otto, p. 84.
[11] Sofocle, Tieste (fr. 234) e le altre fonti citate da Otto, p. 98 ss.
[12] Si conoscono altri esempi di ‘follia' provocata da Dioniso, quando non era riconosciuto come dio: ad esempio, le donne di Argo (Apollodoro, II, 2, 2; III, 5, 2); le figlie di Minia a Orcomeno, che dilaniarono e divorarono uno dei loro figli (Plutarco, Quaest. gr. XXXVIII, 299 e).
[13] Nel V secolo Tebe era diventata il centro del culto, perché là Dioniso era stato generato e là si trovava anche la tomba di Semele. Ciò nondimeno non si era scordata la resistenza dei primi tempi e uno degli insegnamenti delle Baccanti era senz'altro questo: che non si deve rifiutare un dio perché lo si considera ‘nuovo'.
[14] Tiresia difende però il dio: «Dioniso non obbliga le donne ad essere caste. La castità dipende dal carattere, e quella che è casta di natura parteciperà alle orge senza corrompersi» (Bacc., 314 ss.).
[15] Ricordiamo che ciò che distingue uno sciamano da uno psicopatico è il fatto che egli riesce a guarirsi e finisce poi col disporre di una personalità più forte e più creativa del resto della comunità.
[16] Rohde aveva confrontato l'espansione della religione estatica di Dioniso e le epidemie di danze convulsive del Medioevo. R. Eisler richiamò l'attenzione sugli Aissaua (Isawiya), che praticano l'omofagia rituale (chiamata frissa, dal verbo farassa, ‘sbranare'). Dopo essersi identificati misticamente nei carnivori, di cui portano il nome (sciacalli, pantere, leoni, gatti, cani), gli adepti fanno a brani, sventrano e divorano bovini, lupi, montoni, pecore, capre. La manducazione delle carni crude è seguita da una danza sfrenata di giubilo «per gioire ferocemente dell'estasi e comunicare con la divinità» (R. Brunnel).
[17] Secondo le antiche glosse, il termine saboi (o sabaioi) era l'equivalente, in lingua frigia, del greco bacckhos; cfr. Jeanmaire, Dionysos, pp. 95-97.
[18] Ricordiamo che durente la festa delle Antesterie, certi riti erano effettuati unicamente dalle donne, nel segreto più rigoroso.
[19] Il culto di Dioniso fanciullo era conosciuto in Beozia e a Creta, ma finì per diffondersi anche in Grecia.
[20] Firmico Materno, De errore prof. relig., 6; Clemente Alessandrino, Protrept., II, 17, 2; 18, 2; Arnobio, Adv. Nat., V, 19; i testi sono riprodotti in Kern, Orphica fragmenta, pp. 110-111.
[21] De piet., 44; Jeanmaire, p. 382.
[22] Fr. 3, Kinkel I, p. 77; cfr. anche Euripide, fr. 472; per Callimaco (fr. 171) Zagreus è un nome particolare di Dioniso; v. altri e sempi in Otto, p. 191 ss.
[23] Demostene, De cor., 259. Quando partecipavano alle feste dionisiache gli Argivi si impiatsricciavano il viso di gesso. Si sono sottolineati i rapporti tra il gesso (titanos) e i Titani (Titanes), ma questo complesso mitico-rituale fu occasionato proprio dalla confusione tra i due termini (cfr. già Farnell, Cults, V, p. 172).
[24] Cfr. il ‘problema' attribuito ad Aristotele (Didot, Aristotele, IV, 331, 15), discusso, dopo Salomon Reinach, da Moulinier, p. 51. Nel III secolo, Euforione conosceva una tradizione analoga; ibid., p. 53.
[25] Jeanmaire, Dionysos, p. 387. V. altri esempi in Marie Delcourt, L'Oracle de Delphes, p. 153 ss.
[26] Delcourt, op. cit., pp. 155, 200. Plutarco, dopo aver parlato dello squartamento di Osiride e della sua risurrezione, si rivolge all'amica Clea, la leader delle Menadi di Delfi: «Che Osiride sia la stessa persona di Dioniso, chi potrebbe saperlo meglio di voi che dirigete le Tiadi, che siete stata iniziata da vostro padre e da vostra madre ai misteri di Osiride?»
[27] Il ditirambo, «girotondo destinato, in occasione del sacrificio di una vittima, a produrre l'estasi collettiva con l'aiuto dei movimenti ritmici e di acclamazioni e grida rituali, si è potuto -proprio nel periodo (VII-VI secolo) in cui nel mondo greco si sviluppa la grande lirica corale- evolvere in genere letterario per l'accresciuta importanza delle parti cantate dall'exarchon, per l'alternarsi di brani lirici su temi più o meno adattati alla circostanza e alla persona di Dioniso» (Jeanmaire, op. cit., p. 248 ss.).
 
 
Da: http://www.ilbolerodiravel.org/filosofia/eliade.htm
 
tratto da http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/mirceaeliade/dioniso.htm
 
 
 
Dioniso e il mondo dionisiaco
 
 

I. La nascita di Dioniso
A Zeus la cadmeia Semele generò un figlio illustre,
unitasi a lui in amore, Dioniso ricco di gioia,
lei mortale un figlio immortale, e ora ambedue sono dèi.
 
In questi versi di Esiodo (Teogonia, 940-42) sono già tracciate le linee essenziali del mito di Semele: dal suo grembo uscì Dioniso quando lei morì incenerita dalla folgore di Zeus. Semele è in origine dea ctonia dell’Anatolia ed il suo nome è forse da legare col nome slavo Zemlja, che significa "terra". L’unione ierogamica sembra riflettere uno schema tipico della cosmologia mitica: Semele, la terra, è fecondata da Zeus, il fulmine, cui segue tempesta ed acqua pluviale. Il mito racconta di amori segreti tra Semele, figlia di Cadmo e Armonia, e Zeus. Hera, gelosa, con un’astuzia mortale tenta di opporsi all’amore del re degli dèi con la principessa tebana: appare in sogno alla giovane nelle vesti della sua nutrice e convince Semele a chiedere al re degli dèi, suo amante, di mostrarsi a lei come appariva alla sua moglie legittima. Zeus allora venne tra tuoni e lampi a visitarla, e Semele restò folgorata. Zeus, però, riuscì a salvare il
 feto di Dioniso dalle fiamme e lo cucì nella sua coscia fino al compimento della gestazione. Fatali furono le doglie di Semele, fatale il suo tragico parto di Dioniso, che ebbe dunque gestazione e nascita maschile: si tratta di un motivo arcano della mitologia indoeuropea, che trova un altrettanto misterioso parallelo nella tradizione indiana delle Upanishad.

Il dio Soma, equivalente indiano di Dioniso, in quanto patrono delle inebrianti bevande fermentate a base di miele, fu cucito nella coscia della divinità celeste Indra. Ma questa seconda nascita di Dioniso può essere posta anche in relazione simbolica con forme di adozione: è attestata una pratica detta couvade, in cui il padre simulando un parto maschile, riconosceva come proprio il figlio: in questo modo si voleva forse preservare la buona salute del neonato, legato da indissolubile rapporto simpatetico col padre. L’usanza appartiene a popoli mediterranei, quali corsi, iberi e ciprioti, ed ha avuto grande diffusione in varie epoche e fino ai nostri giorni. Ne abbiamo notizia anche da Apollonio Rodio (2.1011) che a proposito degli abitanti di Amatunte racconta:
Qui, quando le donne partoriscono figli ai mariti,
sono essi, i mariti, che si mettono a letto e che gemono,
con il capo bendato, e le donne provvedono al cibo
per loro e preparano i bagni rituali del parto.
 
II. Epiteti cultuali di Dioniso
 
L’origine e la natura variegata di Dioniso si manifesta nel gran numero di epiteti, che si riferiscono alle sue molteplici forme e caratteristiche divine: epiteti legati alla sua vitalità animale e vegetale, a eventi e invocazioni rituali, a luoghi di culto, ad aspetti inerenti al mito, a prerogative e attribuzioni della sua complessa figura divina.
In qualità di inventore del vino Dioniso viene chiamato Ampelos, "tralcio di vite"; ma in Attica tale epiteto è sempre sostituito con Kissòs, "edera", pianta che al tempo stesso dissimula e simboleggia la forma della vite; alla stessa sfera rinvia l’appellativo poetico di Oinops o Oinopos, attribuito all’edera. Affine a questo nome è Perikìonos, proprio dell’area tebana: il suo significato è Dioniso "che si avvinghia alla colonna" in forma di edera. L’appellativo Oinos, "vino", identifica il dio col prodotto della pianta a lui per eccellenza legata, e a Dioniso Oinos veniva sacrificato un capretto, forse per offrire carne in cambio di vino e neutralizzare con la mescolanza di cibo e bevanda ogni eccesso pericoloso di ebbrezza. Ambiguo l’epiteto Orthòs, Dioniso "diritto", forse riferito al fatto che in origine il dio era adorato all’origine nella forma di phallòs "eretto", simbolo di fecondità; ma l’epiclesi potrebbe anche essere
 interpretata nel senso che gli uomini, avendo imparato da lui a mescolare il vino con l’acqua, da quel momento sarebbero stati in grado di tenersi "diritti" in piedi.
 

Al vino si lega anche il furor bacchico e a tale stato psicologico è da connettersi l’epiteto Mainòmenos, Dioniso "furibondo". Ancora al vino, che "scioglie" e "libera" dagli affanni, si riferisce Lysios, il Liber dei romani. Il dio è anche Endendros e Dendrìtes, ossia lo "spirito dell’albero". Infine, come Euànthes, Dioniso della "feconda fioritura", era invocato dai seguaci del thìasos durante il periodo delle scorribande nelle campagne.
Eriphos, Dioniso "capretto", designa l’aspetto ferino più noto nella mitologia; l’appellativo riflette il mito giovanile di Dioniso sbranato dai Titani, fatto a pezzi e poi messo a bollire. Zeus, attratto dall’odore, apparve e col fulmine impedì ai Titani di consumare il pasto, sostituendolo con il capro sacrificale. A questo animale si riferisce anche il culto di Dioniso Melànaigis, il dio "con la nera pelle di capra". Di grande importanza anche gli epiteti che propongono l’identità del dio col vitello e col toro: Bougenès significa Dioniso "figlio di vacca" e "nobile toro". Gli epiteti Eriphos, Bougenès e Taùros dicono anche che Dioniso è la preda a cui si dà la caccia e l’animale sacrificale da divorare crudo. Ma il dio è anche Omàdios e Omestès, "colui che si ciba di carne cruda", e per lui viene imbandito un pasto sacrificale. Anche l’appellativo Isodaìtes, "spartitore esatto di carne sacrificale", rimanda al destino del dio
 smembrato e al tempo stesso istigatore dello sparagmòs e dell’omophagìa, e Anthroporràistes lo designa addirittura come "colui che si ciba di carne umana". È probabile che questi epiteti risalgano ad un’epoca in cui a Dioniso venivano immolate vittime umane. Dioniso è pure Zagreùs, il "grande cacciatore": a Pilo c’era un sacerdote che rivestiva la funzione di Dioniso cacciatore di fiere vive. Nella città portuale tessalica di Pagase il dio era venerato col titolo di Pèlekys, Dioniso "doppia scure": lo strumento era l’arma sacrificale con la quale si compiva l’uccisione del dio in forma di vitello o di toro.
 

Al mito della sua nascita rinvia l’epiteto cultuale e poetico Eiraphiòtes, Dioniso "cucito nella coscia" (vd. I. La nascita di Dioniso). Anche l’appellativo Dimètor, "colui che ha due madri", si riferisce appunto a questa doppia ‘maternità’ del dio. La folgorazione di Semele è ricordata dall’epiteto Pyrìgenos, "nato dal fuoco" o "dalla folgore"; e Bròmios, Dioniso "rumoroso", il dio del "tuono" (bròmos), rievoca l’evento che accompagnò la sua nascita (così è invocato spesso nelle Baccanti). Ai cicli annuali di rinascita si riferisce l’epiteto Trieterikòs, il dio "dei due anni alterni": la trieterìs era appunto un periodo triennale e al terzo anno iniziavano le celebrazioni festive del dio. Al mondo ctonio, oscuro e notturno di Dioniso, si riferisce l’epiteto Nuktèlios, che dice il momento in cui si celebravano le orge, cioè di notte. Anche Meilìkios, che designa Dioniso come il dio "dolce mielato", appartiene alla sfera
 ctonia del dio, perché il miele era offerto in libagione ai defunti e serviva alla loro imbalsamazione (Persefone, che è divinità sotterranea dei morti, è detta Melitòdes, la dea "mielata"). Ma Dioniso può manifestarsi anche come divinità luminosa e a questa sua prerogativa è forse da collegarsi l’invocazione rituale di Iakchos, il dio portatore di fiaccola nei misteri notturni.
Molti tra gli epiteti riguardano i luoghi di culto più importanti: Kàdmeios si riferisce al palazzo di Cadmo, dove c’era la tomba di sua madre Semele. Nysàios e Krèsios rinviano ai luoghi cultuali di Nisa e Creta. Come Limnàios, Dioniso era venerato, all’inizio dei mesi invernali, nella palude di Limna, a sud dell’acropoli di Atene, dove c’era un tempio; nei suoi pressi scaturivano sorgenti la cui acqua era mescolata con vino per evitare eccessi di ebbrezza dovuti al liquore di Dioniso: era l’occasione in cui gli Ateniesi celebravano il nuovo anno vinario.
Alla natura androgina del dio, che contrasta con la sua forza generatrice maschile ma ribadisce il suo essere ambiguo, appartengono appellativi quali Gynnìs, "femminella" (Baccanti, v. 335 "straniero dalle forme di femmina") e Arrenòthelys, "ermafrodito". Alla sfera della sessualità allude Enòrches, "colui che è in possesso dei testicoli", epiteto con cui era venerato a Samo e a Lesbo.
 

Connessi con le immagini e le scorribande dei thìasoi sono le invocazioni a Dioniso come Archìbakchos, "colui che conduce i bàkchoi", oppure Bakchèus e Dithyrambos (Baccanti, 526) quest’ultimo impiegato nelle Antesterie, feste della stagione primaverile, e spiegato dagli antichi come o dis thyraze bebekòs, "colui che è venuto due volte alle porte della nascita", con chiaro riferimento alla doppia gestazione del dio, prima nel ventre di Semele, poi nella coscia di Zeus. Con Thrìambos (cfr. il nome latino triumphus) si voleva ricordare che a lui per primo fu decretato il "trionfo": fu celebrato così quando, come dio vagabondo e guerriero, tornò dalla sua spedizione in India. L’appellativo Mitrephòros designa il dio come "portatore di mitra", una fascia arrotolata sul capo al modo di un turbante, un capo di abbigliamento rituale indossato anche dagli adepti che manifestavano così la propria identificazione colla divinità. Integrato nel
 contesto cittadino e ristretto delle eterie simposiali, il dio era invocato come Melpòmenos, perché alle bevute in onore del dio si mischiava il canto (molpè) e la musica.

 
III. Elementi dell'abbigliamento rituale:
il tirso, la nebride, la mitra
 
Ogni culto ha i propri elementi di abbigliamento rituale: Dioniso e i suoi seguaci indossano accessori caratteristici quali il tirso, la nebride e la mitra.
Thyrsos è parola non greca e di etimologia incerta: alcuni studiosi definiscono la parola "di importazione" e ne vedono la probabile derivazione dall’ittita tuwarsa, che significa "ceppo di vigna", "tralcio". All’origine doveva trattarsi di una canna lunga qualche metro, chiamata anche narthe ("nartece"), che propriamente è una parte del tirso, benché Euripide nelle Baccanti usi i due termini come sinonimi. Quando il culto dionisiaco penetrò in terra greca, il tirso fu un semplice ramo di pino; poi fu ricavato anche da piante dionisiache per eccellenza, quali la vite e l’edera, e il fedele lo decorava con le proprie mani: sulla cima innestava una pigna, intorno ad essa arrotolava rami d’edera e bende di stoffa, ed anche piccoli sistri e nacchere, atti a produrre suoni estatici di accompagnamento al cerimoniale orgiastico. Il tirso è un vero e proprio totem vegetale, che si carica della magica e vitalistica forza della vegetazione per
 trasmetterla a chi lo porta. Possiamo anzi affermare che il tirso ha tutte le caratteristiche e le prerogative di una bacchetta magica: è così dotato delle intrinseche e straordinarie potenze della natura, che le Baccanti hanno il potere di far sgorgare dalle rocce latte, vino e miele, col solo tocco del tirso (Baccanti, 704ss.); e non solo può produrre miracoli benefici, ma anche infondere pazzia. Il tirso è pure arma di offesa: ancora le Baccanti di Euripide se ne servono come picca di guerra per respingere gli assalti dei pastori tebani (Baccanti, 732); e nell’esodo della stessa tragedia, il tirso è usato come una picca su cui esporre la testa di Penteo. Ma l’uso più proprio e consueto di questo strumento riguarda i rituali orgiastici, dove serviva come accompagnamento alle frenetiche danze delle menadi: l’espressione tecnica thyrson tinassein, "scuotere il tirso", dice appunto il suo impiego vorticoso durante le danze.
 

La nebris era una pelle di animale indossata dai seguaci di Dioniso come una tunica. L’animale prediletto da cui si ricavava questo capo d’abbigliamento rituale era di solito il cerbiatto, ma anche la pantera, il capro o la capra, la lince e la volpe (bassaris). La simbologia legata alla nebride è quella di una animalità ferina e selvaggia, di una forza bestiale; una veste che infonde, dunque, il desiderio di varcare i confini del mondo civilizzato per immergersi nella selvaggia naturalità. Il verbo nebrizein ha due significati: "indossare la nebride" e "dilaniare il cerbiatto". I due sensi si integrano a vicenda, perché la nebris delle Baccanti veniva certo ricavata dalla pelle dell’animale fatto a brani durante le orge in onore del dio: lo sbranamento e il conseguente pasto di carne cruda rinviano ancora ad uno stato pre-civile, ad un mondo dominato dallo sparagmòs e dalla omophagìa, fuori dalla civiltà, della quale sua cifra profonda è
 anche la cottura dei cibi.
La mitra è propriamente una fascia, un nastro per capelli, arrotolato sulla testa e intorno alle tempie come un turbante; in origine è un copricapo femminile, ma nel culto dionisiaco era indossato da uomini e donne, il che ribadisce quel superamento e annientamento delle barriere sessuali che caratterizza il culto dionisiaco: un segno di consacrazione che indica tutti i ministri delle orge.

 
IV. La maschera e il doppio
 
Sul famoso vaso François di Firenze è raffigurata una processione di divinità. Le loro figure sono tutte di profilo, escluso una: quella di Dioniso. La sua non è una fuggevole sagoma, ma un volto frontale che pianta il suo sguardo nero nelle pupille dell’osservatore, un volto bloccato in un’espressione innaturale e ambigua, statica ma allo stesso tempo in tensione. Quello del vaso François non è un caso isolato: si è appurato ormai che solo al volto di Dioniso o alle sue maschere è riservato, nell’iconografia vascolare greca, il privilegio della frontalità. Dioniso, dunque, non è un dio ‘obliquo’, come Apollo: il suo messaggio è diretto al fedele in modo esplicito, senza compromessi o ambiguità oracolari, e il fedele lo deve accogliere come un’esperienza totalizzante, che investe tutta la sfera dell’essere.
Ma qual è il messaggio che il dio, tramite la maschera, trasmette all’uomo?
Su questo argomento la materia rimane ancora confusa e sono state avanzate molte ipotesi, che tuttavia concordano su un fatto: le maschere di Dioniso erano venerate come "epifanie" del dio stesso, e non come semplici suoi simboli. L’uomo che indossava una simile maschera, in un certo senso, indossava il dio, e non solo in apparenza, assumendo le sue fantastiche sembianze del volto, ma anche nella sostanza, immedesimando il proprio spirito con quello di Dioniso. L’adepto che compiva questo camuffamento diventava, per così dire, un essere ‘altro’ da se stesso.. In effetti Dioniso è il "dio-altro", il "dio-estraneo", il "dio-straniero": non fa parte del consesso olimpico, perché forse è venuto da lontano, dal di fuori. Pausania racconta la storia di un oggetto ‘estraneo’, una enigmatica maschera di legno trovata da alcuni pescatori di Lesbo in fondo al mare, che subito fu considerata epifania di Dioniso. Questa immagine che emerge dal mare,
 anch’esso uno spazio ‘altro’, è un enigma da decifrare, perché in questo volto c’è appunto qualcosa di xènos (Baccanti, 453), cioè di "strano" e di "straniero", secondo il doppio, ambiguo, significato della parola greca: "straniero", infatti, non designa il non-greco, ossia il "barbaro", ma il cittadino di una comunità vicina. Penteo, nelle Baccanti di Euripide, si rivolge a Dioniso come xènos. Chi indossava la maschera, dunque, diventava "altro".
Ma come mai l’ "alterità" sembra essere l’unico fine a cui i fedeli tendevano durante i culti misterici?
Perché "altro", in campo dionisiaco, era sinonimo di "tutto". Essere "altro" dall’individuo significava divenire uguale alla "totalità": totalità che in questo caso è coincidentia oppositorum, unione dei contrari. La maschera stessa, di per sé, contiene una polarità di significati opposti: è "presenza", perché considerata epifania di Dioniso, ma allo stesso tempo è "assenza", perché ha le orbite vuote, e aspetta di essere indossata da qualcuno. E questo qualcuno diventa Dioniso, pur rimanendo se stesso, e, anche se UNO, rispecchia in sé i MOLTI.
C’è un mito orfico in cui Dioniso ci appare bambino che, con la faccia tutta impiastricciata di gesso (una sorta di maschera bianca), si guarda allo specchio e non riconosce più la sua stessa figura, considerandosi "altro" da sé. Che cosa significa questo mito?
Esso ci dice che il dio bambino, guardando la sua faccia bianca in uno specchio, non vede più se stesso, ma il Tutto. Ed ecco perché nel celebre affresco della Villa dei Misteri a Pompei è raffigurato un adepto che guarda in una coppa di vino, nella quale è riflessa l’enigmatica espressione di una maschera dionisiaca: in quella coppa c’è il Tutto.
Il dionisismo, dunque, è la ricerca di una divina armonia con l’universo, il tentativo di abolire le differenze fra animale e uomo e fra uomo e dio. Tappa forzata, però, e straziante, è l’annullamento dei contrari: la maschera costituisce l’arché e il tèlos, il "principio" e il "fine", di questo cammino di misteriosa trasformazione; e lo sguardo inquietante delle sue orbite vuote apre l’adepto a prospettive oscure e luminose, comunque sovrumane.

 
V. Bestiario dionisiaco
 
Tra gli animali erano particolarmente sacri a Dionso il capro, il toro, la pantera, il leone, il serpente e l’asino.
Il capro è l’animale ‘tragico’ per eccellenza: esiste, come noto, un legame sicuro, anche se controverso, fra la tragedia e il capro, da cui essa prende il nome. Il termine TRAGWIDIA (tragoidia) è infatti formato da TRAGOS (tragos) + WIDH (oide) = "capro + canto", ed è spiegato in vari modi:

canto dei TRAGOI, ossia i seguaci di Dioniso mascherati da capri;
canto per il capro, come premio del vincitore;
canto sul/in onore del capro.
La TRAGWIDIA era il canto religioso con cui, nelle feste di Dioniso, si accompagnava il sacrificio di un capro, la vittima preferita dal dio. Forse fu la sua ben nota lascivia e sfrenatezza sessuale a fare del capro uno dei membri del corteggio dionisiaco; ma importante poteva essere anche il fatto che i capri mangiassero con avidità i tralci della vite. Il collegamento tra il Dioniso e l’animale risulta evidente anche dalle denominazioni cultuali del dio: come "giovane capro" Dioniso era invocato a Metaponto. Anche nel mito spesso il dio si manifesta in forma di capro: si narrava che Zeus, per difendere il fanciullo dalle insidie di Era, lo trasformò in un capretto; e nella fuga davanti al tremendo Tifone, Dioniso fuggì in Egitto, dopo aver assunto forma caprina.
Il toro fra i popoli antichi fu considerato come il simbolo della fecondità e della forza generatrice; proprio per questo Dioniso ne assumeva di preferenza l’aspetto quando si presentava ai suoi fedeli. Tuttavia, non soltanto la vitalistica pienezza generatrice fece del toro una delle manifestazioni del dio, ma anche la sua furia selvaggia che lo rende un animale pericoloso. Anche il toro, dunque, come tutte le autentiche manifestazioni dionisiache, ha la duplicità di natura di chi dona e anche distrugge la vita in preda al furore bacchico. Fu appunto il toro furioso che i fedeli avevano in mente, quando invocavano Dioniso. Nelle Baccanti il coro invoca il dio perché appaia in forma di toro, e così si manifesta a Penteo per condurlo alla sua orrenda fine. L’epifania, in questa scena della tragedia, era forse indicata dalla maschera indossata dall’attore con le corna che spuntano dal capo (v. 921): Dioniso è il "toro munito di corna". Penteo è
 in preda all’allucinazione, "paragonabile - secondo Dodds - alle visioni dei satanisti medievali che vedevano il loro maestro con corna caprine". Le Mimallones, cioè le Baccanti macedoni, "portavano corna sul capo ad imitazione di Dioniso" (Scholia a Licofrone 1237). Agli occhi allucinati dello stesso Penteo il dio era già apparso nel suo aspetto taurino; il re lo aveva condotto alla greppia per imprigionarlo, ma qui aveva trovato un toro (Baccanti, 618). L’episodio è forse la reminiscenza di un tradizionale rituale dionisiaco: l’inseguimento e la cattura del toro sacrificale divino (Pindaro, Ol. 13.18). Pausania (8.19.2) racconta di una corrida celebrata in Arcadia dove un giovane torello veniva staccato dal branco, catturato dai giovani a mani nude e, infine, sacrificato a Dioniso. Con la metamorfosi taurina del dio è da mettersi in relazione l’appellativo "Bromio", epiteto cultuale di Dioniso "Signore delle grida". Eschilo in una scena
 degli Edoni (fr. 57 Radt) descrive terrificanti apparizioni che muggiscono nell’oscurità con orrende voci taurine. Plutarco (Iside e Osiride, 35) così descrive i riti delle donne dell’Elide:



Molti Greci rappresentano Dioniso in forma di toro, e in Elide in particolare le donne invocano il dio pregandolo di venire a loro ‘con piede taurino’. Gli Argivi poi danno a Dioniso l’epiteto di ‘figlio di toro’ e lo chiamano con le trombe perché risorga dalle acque.
La pantera compare con frequenza nei miti dionisiaci e la pelle di pantera fa parte dell’abbigliamento del dio e dei suoi seguaci. In Beozia il dio fece impazzire di terrore le Miniadi con le sue metamorfosi in toro, leone e, infine, in pantera. Il carro nuziale su cui salì dopo le nozze con Arianna era trainato da sei pantere. A motivo della sua bellezza e della sua taglia, la pantera era stata consacrata a Dioniso. Per qualche tempo la fiera aveva accettato le carezze del padrone; poi, eccitata dalla primavera, era partita per le montagne. Fu catturata nella Panfilia, dove gli aromi l’avevano attratta. Si stabilisce anche un forte legame tra la pantera e il vino, liquore dionisiaco per eccellenza: secondo gli antichi, infatti, le pantere, sempre assetate per natura, potevano essere catturate proprio grazie al vino; bastava spargerne qualche recipiente in prossimità di un punto di abbeveramento e le fiere, stimolate dall’aroma, si avvicinano,
 bevevano finché ce n’era e, approfittando della loro ubriachezza, erano prese facilmente.
 

La figura del leone è presente nel mondo greco a partire dall’arte minoica; qui la Grande Madre delle Fiere, la Pòtnia Theròn, viene raffigurata sulla cima di un monte scortata da due leoni. Su una gemma minoica appare invece un personaggio identificato come "Signore degli animali selvatici". La relazione esistente fra lui e i due leoni che lo fiancheggiano è chiaramente espressa dal suo gesto: egli impone le sue mani sollevate sopra gli animali rampanti, li addomestica, li attrae in suo potere e li fa suoi prigionieri.
Il serpente è un altro animale che riveste un ruolo fondamentale nel culto di Dioniso. Già nell’arte minoica troviamo la figura del serpente: reperti archeologici del Palazzo di Cnosso rappresentano la figura femminile della Potnia a seno scoperto, con le mani protese o allargate, nell’atto di maneggiare serpenti. In un passo delle Dionisiache di Nonno di Panopoli si legge che fu il serpente a indurre Dioniso a gustare l’uva. Il serpente è bestia ambigua, doppia: sanguinaria e divina; è animale ctonio collegato colla sfera della morte; le serpi nascono dal midollo osseo dei morti, secondo Eliano. Si ripropone il binomio vita-morte che è segno di ambiguità, della doppia natura di Dioniso. Nei riti dionisiaci le Baccanti mettono a rischio la propria vita, giocando con la morte, tramite la manipolazione dei serpenti (Baccanti, 698). In epoca più tarda il culto di Dioniso pretendeva che le Menadi adoperassero serpenti non velenosi, quale barbaro
 ornamento della loro acconciatura di Baccanti.
Anche l’asino appartiene al contesto dionisiaco, ma con importanza forse minore rispetto agli altri animali: nessuno degli epiteti del dio lo menziona, né il dio prese mai la sua forma. Il legame Dioniso-asino è tuttavia testimoniato da diversi reperti figurativi della ceramica vascolare, che fanno di questo animale la cavalcatura del dio. D’altra parte, anche l’idea della forza fallica dell’asino permetteva un facile rapporto con Dioniso, divinità legata alla fecondità e alla potenza generatrice della natura. L’asino poi, come il capro, è divoratore di piante predilette da Dioniso, vite e anche fico. Come sempre, tuttavia, nel ciclo della rinascita e nel segno dell’ambiguità dionisiaca, la vita coincide con la morte e, non a caso, l’asino farà parte integrante anche del simbolismo funerario degli antichi.
 
 
VI. La vite, l’edera e altri attributi vegetali
 
Il mondo dionisiaco si riconosce soprattutto dal suo spirito di frenesia che si manifesta in particolare nel vino. È nella vite in particolare che cresce il delirio dionisiaco e si comunica a tutti coloro che ne gustano il succo prodigioso: perciò la vite è il simbolo più rappresentativo del dio. Eppure Dioniso non è solo nella vite.
Accanto alla vite la pianta prediletta da Dioniso è l’edera. Come Apollo si adorna di lauro, così Dioniso si adorna di edera ed è perciò chiamato kissokòmes; nel demo di Acarne era invocato come kissòs. Rami di edera erano avvolti anche attorno al tirso; risulta perfino da testimonianze che i suoi devoti si facevano tatuare sul corpo foglie d’edera. Narra il mito che l’edera fosse comparsa subito dopo la nascita di Dioniso, per riparare l’infante dalle fiamme che bruciavano il corpo di sua madre Semele: l’edera avrebbe avvolto tutto intorno la reggia di Cadmo attenuando le scosse del terremoto che accompagnò lo scoccare della folgore. Dall’edera prendeva nome anche una fonte presso Tebe, detta appunto Kissoùsa, dove le Ninfe avrebbero celebrato la rituale abluzione del neonato dio, allevato poi sul monte Elikòn, il cui nome deriva da èlix, che significa propriamente "spirale", ma è anche altro nome della pianta.
Edera e vite manifestano la loro stretta parentela, ma al tempo stesso entrano in un rapporto contrastivo denso di significati: la vite, nella stagione fredda, giace come morta, finché, col rinnovarsi del calore solare, prorompe a nuova vita col suo verde sgargiante e coi suoi frutti ardenti; l’edera fiorisce in autunno, quando nelle vigne si celebra la vendemmia, e reca i suoi frutti a primavera; tra la sua fioritura e fruttificazione intercorre l’epoca dell’epifania invernale di Dioniso; e così, in qualche modo, l’edera rende omaggio al dio delle inebrianti feste dell’inverno in qualità di ornamento stagionale. La vite, invece, ha il massimo bisogno di calore solare e di radiosa luce.
L’edera era dagli antichi paragonata al serpente per la loro natura strisciante: i movimenti con cui la pianta striscia al suolo o si attorce agli alberi fanno pensare alle serpi avvolte intorno alle chiome e maneggiate dalle Baccanti. Ma si riteneva che edera e serpenti appartenessero al dio soprattutto per la natura fredda e ctonia attribuita loro: la natura dell’edera, infatti, veniva opposta a quella del fuoco, con cui invece sembrava imparentato il vino. Per questo alla freschezza dell’edera si attribuiva anche la virtù di fugare l’ardore dello stesso vino e si credeva che Dioniso avesse comandato ai suoi fedeli d’incoronarsene durante i simposi. L’affinità e il contrasto tra vite e edera è radicata nell’essenza stessa del dio dalla duplice figura, la cui natura si esprime dalla terra per mezzo di esse: luce e oscurità, calore e freddezza, ebbrezza di vita e soffio di morte.
 

Il pino (o l’abete), come l’edera, verdeggia anche d’inverno e figura nel mito e nel culto come uno degli alberi sacri a Dioniso. Nelle selvagge e sfrenate feste notturne il suo legno fiammeggia nelle fiaccole e la sua pigna incorona il tirso. Nelle Baccanti (v. 1061), Penteo, per assistere ai rituali delle Menadi, sale su un pino. Non si può escludere che il pino fosse elemento rituale dello sparagmòs: durante il cruento rito la vittima sacrificale poteva essere legata al pino prima dello sbranamento. Il pino, inoltre, è collegato anche alla vite: nasce anch’esso nei terreni caldi, dove meglio prospera anche la vite, e la sua resina serve alla conservazione e a temperare il gusto del vino.
Altra pianta sacra a Dioniso era il fico, simbolo della vita sessuale: sul suo legno si intagliavano i "falli".
Infine, il mirto, dove sembra che torni a manifestarsi l’altro aspetto ctonio della divinità: per desiderio dei signori dell’Ade, Dioniso avrebbe lasciato nell’oltretomba il mirto in sostituzione della madre Semele, che egli sottrasse al regno dei morti; così veniva motivata la credenza che il mirto appartenesse al dio e alle ombre degli inferi.

 
VII. Dioniso e i thiasoi femminili
 
L’antica società greca fu maschilista e patriarcale. La netta discriminazione tra uomo e donna ha riflessi in campo religioso: le divinità con caratteristiche e occupazioni maschili (ad es. Apollo, Efesto, ecc.) attiravano fedeli di sesso maschile; le donne (a parte i misteri eleusini) erano ammesse a partecipare solo ai riti locali in onore di divinità femminili (Demetra e Kore, Atena, Artemide, Hera, ecc.). Le divinità olimpiche erano rappresentate esclusivamente come maschio o femmina. Diverso, però, il caso di Dioniso (in origine non appartenente al pàntheon), il quale, incarnando le caratteristiche di entrambi i sessi, si propone come dio ambiguo. Questa duplicità di ordine sessuale funziona a livello di sfera d’influenza del dio: bere il vino in onore di Dioniso era soprattutto privilegio degli uomini (si pensi al contesto, tutto maschile, dell’eteria simposiale); il menadismo rituale, invece, era pratica pressoché esclusiva delle
 donne. La differenza passava in secondo piano solo in occasione di festività pubbliche in onore delle epifanie annuali del dio (ad esempio durante le Anthesterie), dove si richiedeva la partecipazione di tutta la cittadinanza. Quanto poi al topos delle donne ubriacone e avvinazzate, bene attestato dalla letteratura, esso rientra nella mentalità misogina e maschilista greca.
 

Quando si parla di ‘Dioniso e le donne’, bisogna dunque riferirsi soprattutto alle Menadi e al menadismo, cioè a quelle donne che praticavano rituali in preda ad un’estatica follia (‘menade’ è termine riconducibile alla radice man-, comune al verbo maìnomai, che significa "sono folle, pazzo"). Le Menadi mitiche possono considerarsi le madri spirituali di Dioniso bambino. Dioniso fu nutrito e allevato da Ninfe, gruppi sororali, che poi seguirono il dio fatto adulto. Una donna in particolare si distingue per le sue cure materne: Ino, dietro la quale può celarsi la figura della madre Semele, morta nel parto. Ino aveva altre due sorelle, Eunoe e Agave, madre di Penteo, da lei sbranato durante i riti orgiastici sul Citerone. Esse formavano un gruppo di tre donne, le tre Menadi originarie, archetipi dei thiasoi dionisiaci.
Alla base di ogni racconto c’è sempre un rifiuto del culto di Dioniso. Le Menadi sono intente ai loro telai: è proprio questo strumento, che definisce in Grecia il ruolo tipicamente femminile, ad essere attaccato dal dio, il quale vi avvolge intorno edera e serpi distruggendolo. Allora le donne sono strappate ai loro compiti familiari e abbandonano la casa del padre. Secondo una versione del mito fu Hera a togliere alle figlie di Minia il senno, come punizione per non aver tributato onori alla dea; si erano addirittura beffate del simulacro ligneo di Hera. La rivolta contro Hera in un accesso di follia dionisiaca va letta come rifiuto dello stato matrimoniale: la trasgressione della doppia attività, cioè della tessitura e del matrimonio, implica una radicale contestazione di quei ruoli che definiscono la donna greca all’interno della città: è significativo che le Menadi fuggano e che celebrino le loro orge rituali immerse negli spazi naturali.
 

Dioniso, nel prologo, dice di aver colpito col suo delirio le donne di Tebe, di averle spinte fuori dalle case e trascinate sul Citerone per celebrare i suoi riti.
Altri gruppi sono attestati dalla tradizione: in Elide c’erano le Sedici ‘donne sacre’ a Dioniso, poi le Thyàdes delfiche e attiche. Sono tutte congregazioni che riflettono antiche strutture di clan, all’interno dei quali si celebravano cerimonie di iniziazione femminile ai thìasoi. Nelle Baccanti (v. 694) si distinguono infatti tre categorie femminili, vecchie, giovani, vergini (donne non maritate), che forse rispecchiano la suddivisione delle Baccanti nei thìasoi. Di solito la distinzione per classe di età era un elemento applicato in tutti i rituali, non solo quelli dionisiaci, e le donne maritate celebravano il rituale in modo diverso. Le Menadi, dunque, rappresentano le immagini della femminilità primigenia del mondo, ed esse sono madri e nutrici; il loro senso materno si esplica, però, ad uno stato di ferina naturalità, tanto che si manifesta addirittura nell’allattamento di cuccioli animali, accostati dalle seguaci di Dioniso al
 loro seno per nutrirli: è questo un aspetto dell’orgia dionisiaca, che riflette il rituale menadico originario, mitico, così come l’omofagìa e lo sparagmòs, realmente praticati in un remoto e perduto passato.
Ai confini del mondo civile, è infranta ogni norma e barriera sociale, ogni regola di vita politica: la donna si ribella ai doveri imposti dalla famiglia patriarcale e fonda una comunità contrapposta a quella maschile, adottando i simboli del gruppo dominante: celebrazione di sacrifici, trasformazione in guerriere, attività di caccia.
 

I ruoli s’invertono, ricreando un mondo egualitario: Dioniso è un dio demotikòs, cioè un dio del popolo tutto, senza differenze di sesso o di classe, e come tale promette ‘libertà’. È diverso da Apollo, dio dell’aristocrazia dei ghène e appartenente allo spazio controllato e armonizzato dalla civiltà e della cultura: Dioniso promette di sciogliere i legami della solidarietà familiare e induce a ‘comportarsi da pazzi’.

 
VIII. Il simposio e il kòmos
 
Una particolare frenesia deriva dal vino: l’animo umano è travolto e l’uomo perde la chiara coscienza di sé immerso nel fluttuare delle sensazioni. Esiste, come è noto, un legame cultuale originario tra Dioniso ed il vino: durante le feste della sua epifania il vino sgorgava miracolosamente e maturavano le viti. Il vino è il dio stesso che induce entusiastica ebbrezza, spesso connessa a sfrenatezza sessuale, e risveglia gli istinti e gli impulsi della natura umana. Euripide, nelle Baccanti (vv. 221ss.) fa riferimento all’etilismo: nella scena si allude a grandi crateri, colmi di vino, intorno ai quali le Menadi si dispongono in cerchio. Da Pausania sappiamo che durante i riti dionisiaci venivano posti nelle vie crateri di vino, ai quali tutti potevano attingere. Tra VI e V secolo a.C. assistiamo alla progressiva affermazione del dionisismo e l’aspetto più importante e ricco di significati nella relazione tra Dioniso e il vino è costituito
 senza dubbio dal contesto simposiale. È in questo ambiente che Archiloco intona il bel canto di Dioniso (il "ditirambo"), quando il vino gli ha folgorato la mente (fr. 120W). Vino e canto hanno gli stessi effetti: placano gli affanni quotidiani. Il canto ispirato dal vino è illuminante folgorazione di un istante: il poeta è folgorato, come folgorata da Zeus fu Semele e ai suoi occhi si apre solo la visione istantanea e individuale del mondo dionisiaco. Infiammato dal vino di Dioniso l’uomo greco esprime nel contesto simposiale i suoi sentimenti personali, le proprie passioni politiche, leva il proprio inno alle gioie della vita, invita a dimenticare gli affanni della dura realtà (basti pensare alla lirica di Alceo, Teognide, Anacreonte). Il simposio diviene luogo di relazioni sociali, di un’etica di gruppo che trova la sua espressione nelle eterie, persone unite da un unico sentire, dove compagni (etaìroi), legati dal vincolo del giuramento,
 lottano per gli stessi obiettivi politici. La carica eversiva del vino si espande nella lotta delle eterie aristocratiche contro il tiranno o la massa volgare del popolo (Alceo e Teognide), ma allo stesso tempo si depura, proprio perché integrata nella sfera della città, ossia in un contesto civilizzato regolato da norme rituali precise, e contrapposto alla ritualità più primitiva che si manifestava nelle aree extraurbane delle trietèrides montane a contatto con la natura selvaggia. L’ambiente del simposio, nelle sue varie espressioni, può essere ripercorso per mezzo di uno straordinario numero di pitture riproducenti thìasoi, kòmoi, poeti, musici e etere, ecc., ma la descrizione più precisa dei preparativi e dello svolgimento di un simposio ci è offerta da un’elegia di Senofane (fr. B 1 DK):
 
Il pavimento lustra: mani, tazze pulite.
Uno ci pone in capo le ghirlande,
un altro tende fiale di balsamo. Il cratere
troneggia, pieno di serenità.
Altro vino promette di non tradirci mai:
è in serbo nei boccali, sa di fiore.
L’incenso spira tutt’intorno una fragranza
di chiesa, è chiara, fresca e dolce l’acqua.
Ha ciascuno il suo pane biondo; la salda mensa
è carica di cacio e miele denso.
C’è nel mezzo l’altare coperto di fiori.
La casa è avvolta di festa e di musica:
Lodare Dio con puri detti e con discorsi
devoti è, per i buoni, il primo debito.
Dopo avere libato e formulato la preghiera
di poter fare - che più conta - il bene,
non è una colpa il bere, purché a casa si ritorni
senza sostegni, se l’età consente.
E s’esalti chi svela nel vino intenti nobili,
memore di virtù, ricco d'impegno. (...)
Bello aver cura sempre degli dei.
[trad. di F.M. Pontani]
 
L’atmosfera apparente è quella di una festa, ma il bere in comune è soprattutto un atto sacrale, il momento supremo nel quale s’inscrivono altri atti rituali del simposio: libagione votiva, incoronamento con ghirlande di edera e di mirto, inni al dio accompagnati dall’aulòs, dalla cetra e dalla lira. Il tutto avviene secondo un cerimoniale regolato da norme ‘liturgiche’, un rito dove la presenza del dio è assicurata dal liquore che egli stesso ha rivelato all’uomo greco: qui, nel simposio, il vino diventa dio, ed è chiamato Bacco, Bromio, Dioniso.
 

Poi dal chiuso del simposio i partecipanti, in preda all’ebbrezza, usciranno fuori, a cielo aperto, per celebrare col kòmos la divinità. Il kòmos era un corteo festoso e disordinato, in cui i simposiasti mascherati sfilavano, come in processione; pur rimanendo nell’ambito privato dato che coinvolgeva i simposiasti, il corteo aveva un valore rituale e per il chiassoso disordine e la gioia manifestata con canti in onore del dio, si avvicinava alle manifestazioni proprie degli sfrenati thìasoi dionisiaci.

 
IX. Strumenti musicali e danza estatica
 
Nella iconografia vascolare e statuaria il dio compare accompagnato da strumenti a fiato e a percussione, tipici del suo corteggio: flauti, nacchere, timpani.
Il flauto era considerato lo strumento atto a scatenare stati d’eccitazione psicologica. Il timpano, strumento per eccellenza dei riti orgiastici, era una sorta di piccolo tamburo, costituito da un cerchio di legno, sul quale era distesa una pelle di toro, uno degli animali simbolo del dio: si può dire che contiene lo spirito vivente del dio e che la sua costruzione è sottoposta ad una serie di norme rituali. La leggenda narra che il timpano fu inventato dai Coribanti e fu, poi, usato da Dioniso. I timpani erano suonati dalle Baccanti che li innalzavano sopra il capo, come si vede talvolta nelle rappresentazioni vascolari. Essi, tuttavia, erano sentiti come estranei alla tradizione musicale greca, perché provenivano dalle regioni asiatiche.
Data la diffusione di timpani e di tamburi nei culti estatici, si è pensato ad un effetto neuro-fisiologico del tam-tam sull’udito umano: una sorta di droga sonora capace di indurre la trance automaticamente. I rapporti tra suono del flauto e follia furono oggetto di studio anche nel campo della medicina. Secondo Platone, le melodie del flauto "sono capaci da sole, per la loro potenza divina, di trasportare le anime al delirio" (Simposio, 215c); secondo Aristotele il flauto possiede il potere di generare "entusiasmo" (Politica, 1342b).
Il flauto e il timpano non erano però gli unici strumenti adatti a scatenare deliri estatici: Dioniso si presenta anche con strumenti a corda, come barbito, cetra, e lira; a Creta lira e flauto erano ugualmente impiegati per la danza estatica dei Cureti. Studi recenti hanno permesso di capire la funzione della musica nei rituali caratterizzati da fenomeni di trance e di passione, come quelli dionisiaci. In questo senso sono state fatte notare le affinità della guarigione catartica con l’estasi e con fenomeni di risanamento dall’isterismo. Si sono mostrati, poi, i punti di contatto tra le espressioni rituali del culto dionisiaco del mondo greco ed affini manifestazioni di culto di alcuni paesi islamici dell’Africa. Si è, infine, messa in relazione la trance anche all’uso di altri strumenti a corde, come la lira.
L’iconografia vascolare dà ampio spazio all’uso di strumenti a corde nel rituale dionisaco e la lira è ritratta tra le mani del dio stesso o in quelle di Satiri e Sileni che fanno parte del suo corteggio. È soprattutto tra il V e il IV secolo lira ed arpa si uniscono, come strumento dionisiaco, al barbito, già abituale nelle feste e nei simposi, e da questo momento, nei thiasoi, le Menadi e i Satiri alternano il pizzicato dell’arpa e l’accompagnamento della lira alla frenesia ritmica dei cembali e dei timpani.
Alla luce di queste brevi considerazioni, si può concludere che quando Dioniso appare come dio ‘lontano dalla polis’, il dio ‘Straniero’, scatenante angoscia e follia nella trance collettiva, è prevalentemente ritratto tra flauti, cembali e timpani; mentre quando si manifesta come dio ‘integrato nella polis’, inserito cioè nello scenario cittadino, come protettore delle istituzioni sociali e familiari, destinatario di gare e performances festive, è accolto, soprattutto dalla fine del V secolo in poi, con lira e vari tipi di arpa.

 
X. Il ditirambo di Dioniso e l'origine della tragedia
 
Sull’origine e sull’etimologia del termine dithyrambos restano ancora vari dubbi. Di sicuro si può dire soltanto che ditirambo è parola di origine anellenica, assorbita dagli indoeuropei solo dopo il loro arrivo nella penisola ellenica. Secondo alcuni dithyrambos sarebbe un antico nome cultuale di Dioniso. Il secondo elemento del termine (-ambos) figura in altre parole simili, anch’esse legate al culto dionisiaco, quali thriambos e iambos: ne deduciamo che esso significa canto (M. Unterstainer).
In un’iscrizione frigia, figura la parola dithrera, col significato di sepolcro, e ciò lascia supporre che il ditirambo sia stato, all’origine, un canto epitombale. L’ipotesi è supportata dal confronto fra Iliade XXIV 721 e un passo della Poetica di Aristotele (IV 1449a9): i threnon exarchoi, "coloro che intonano il lamento", di cui parla Omero, altri non sarebbero infatti che gli exarchontes ton dithyrambon, "coloro che intonano il ditirambo", ritenuti da Aristotele i precursori della tragedia, nata, forse, da canti cultuali in onore di Dioniso prima e di eroi poi. Il legame fra canto epitombale e ditirambo sembra dunque completo: ai suoi inizi il ditirambo, come la maggior parte della lirica corale, appartiene alla sfera del culto; è un canto per Dioniso ed è seguito da un gruppo di persone guidate da un exarchon, le quali accompagnano in processione l’animale sacrificale e si dispongono intorno all’altare del sacrificio. La più antica
 menzione del termine ditirambo è in un famoso frammento di Archiloco (120 W.), dove il poeta afferma con orgoglio:
io so intonare il bel canto di Dioniso Signore,
il ditirambo, quando nell'animo sono folgorato dal vino.
Il frammento apre una nuova prospettiva: Archiloco concepisce il suo rapporto col canto in modo nuovo e diverso rispetto all’aedo omerico; egli lo definisce "bello", è orgoglioso di saperne creare il testo e la musica (molpè) e non si dichiara più ispirato dalle Muse, ma dal vino di Dioniso, che ispira lui solo e non chiunque ne beva. Questa decisa affermazione della propria personalità, comune ai poeti contemporanei ad Archiloco, e a quelli delle generazioni successive, aiuta a spiegare l’evoluzione dei canti cultuali (l’inno, il prosodio, il peana, il partenio, i nomoi), ma non è sufficiente a chiarire l’evoluzione del ditirambo da canto cultuale in onore di Dioniso a rappresentazione musicale, in quanto essa ha cause molteplici di natura sociale, politica, religiosa e culturale.
All’inizio del VI sec. a.C., dopo la colonizzazione, l’economia basata sui commerci tende a soppiantare l’antico sistema sociale, fondato su un’economia agraria; sul piano socio-politico viene scosso e frantumato il predominio dell’aristocrazia con la conseguente nascita delle tirannidi. Quando i tiranni cercano di mediare realtà opposte e conflittuali, il culto di Dioniso si rivela il più adatto a interpretare le esigenze religiose di tutta la comunità proprio perché, svincolato dai gruppi ristretti dei ghéne, si propone come religione universale. Su questo sfondo si colloca proprio la riforma del ditirambo attuata a Corinto da Arione al tempo del tiranno Periandro. La fonte diretta è Erodoto: "primo fra gli uomini dei quali abbiamo conoscenza, Arione compose un ditirambo, gli diede il nome e lo fece rappresentare a Corinto". Per la prima volta il ditirambo diviene spettacolo eseguito durante la festa per Dioniso, come avverrà ad Atene
 nel V secolo. Ma il ditirambo-spettacolo che si svolge a Corinto è diverso dal ditirambo-spettacolo di Atene? È lecito supporre di sì, stando alle affermazioni di due eruditi ellenistici, Antipatro ed Eufronio, secondo i quali il ditirambo non fu creato da Arione a Corinto, ma da Laso ad Atene. La questione, comunque, è molto controversa e lontana ancora ogni ipotesi definitiva: allo stato attuale si può solo affermare che Arione, a Corinto, imprime un nuovo corso al ditirambo, ma la sua storia, legata alla tragedia come noi l'intendiamo, sembra iniziare con Laso di Ermione, che opera alla corte dei Pisistratidi.
 

L’organizzazione dell’agone tragico sotto Pisistrato (535 a.. C. circa) rientra in una politica culturale e religiosa, che interpreta a pieno i forti mutamenti della realtà socio-economica, e contribuisce enormemente a fare della polis attica il centro della cultura greca. La costituzione di Clistene (508 a.C.) sostituisce dieci tribù alle quattro tradizionali e stabilisce che alle Grandi Dionisie ogni tribù presenti un coro ditirambico di 50 uomini o ragazzi. Le spese sono sostenute da un corego che, oltre a scegliere il poeta, provvede all’istituzione e al mantenimento del coro. Le gare ditirambiche aprono le Grandi Dionisie di Elafebolione (marzo-aprile) e sono le più entusiasmanti, perché a vincere non è solo il poeta, ma l’intera tribù. Il carattere agonale favorisce e accelera l’evoluzione del genere e la musica appare subito come un campo quasi inesplorato: l’aulòs per la sua struttura permette effetti polifonici estranei
 all’eptacordo e ribelli alla disciplina ritmica del testo. Il ditirambo, che per strumento ha appunto l’aulòs, porta ad Atene la ricca esperienza dei popoli asiani, i registri tonali dell’aulòs, al tempo stesso dolci e cupi, gravi e acuti fanno entrare davvero lo spettatore in contatto con Dioniso.
 
 
da http://volta.valdelsa.net/thiasos/baccanti/saggi.htm
 
Per saperne di più
 
Su Dioniso, il dionisismo e le Baccanti di Euripide esiste una bibliografia molto vasta, per non dire sterminata; qui, per comodità, ci limitiamo a indicazioni bibliografiche selezionate su scritti più o meno recenti e facilmente reperibili:
> E.R. DODDS, Euripides, Bacchae, Oxford-New York, 1960.
> H. JEANMAIRE, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Torino, 1972.
> G.A. PRIVITERA, Il ditirambo da canto cultuale a spettacolo musicale, in "Cultura e scuola", 43, 1972,pp.56-66.
> E.R. DODDS, I Greci e l'irrazionale, Firenze, 1978 (in particolare, il saggio sul 'menadismo').
> AAVV, Poesia e simposio nella Grecia antica, a c. di M. Vetta, Bari-Roma, 1983.
> M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, Milano, 1984.
> M. DETIENNE, Dioniso a cielo aperto, Roma-Bari, 1987.
> A. HENRICHS, Changing Dionysiac Identities, in Jewish and Christian Self-Definition, III, Self-Definition in the Graeco-Roman World, edd. B.F. Meyer e E.P. Sanders, London 1982, pp.137-160 (testo) e 213-236 (note).
> AAVV, Dionysos. Mito e Mistero, Bologna, 1989.
> G. GUIDORIZZI, Euripide, Le Baccanti, Venezia, 1989.
> F. LISSARAGUE, L'immaginario del simposio greco, Bari-Roma, 1989.
> J. KOTT, Mangiare Dio, Milano, 1990.
> W.F. OTTO, Dioniso. Mito e culto, Genova 1990.
> EURIPIDE, Alcesti, Medea, Baccanti, a c. di Ma. Vitali, Milano, 1991.
> K.KERÉNYI, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Milano, 1992.
> G. IERANÒ, Euripide, Baccanti, Milano, 1999.



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