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DIONISIO [Museo
Uffizi Firenze- foto dell'auore del sito
anticamadre.net]
Dioniso,
figlio di Semele gloriosa
Io ricorderò: come egli apparve lungo la riva del
limpido mare,
su di un promontorio sporgente, simile a un giovanetto
nella prima adolescenza; gli ondeggiavano intorno le
belle chiome
scure; sulle spalle vigorose aveva un mantello
purpureo. E presto, nella solida nave,
apparvero veloci, sul cupo mare, pirati
tirreni: li portava la sorte funesta. Essi, al
vederlo,
si scambiavano segni fra loro: rapidamente balzarono
fuori, e subito
afferrandolo, lo deposero nella loro nave, pieni di
gioia nel cuore.
Pensavano infatti ch’egli fosse figlio di re cari a
Zeus,
e volevano legarlo con legami indissolubili:
ma i legami non riuscivano a tenerlo, e i vincoli
cadevano lontano
dalle sue mani e dai piedi; egli se ne stava seduto e
sorrideva,
con gli occhi scuri. Il timoniere, comprendendo,
subito esortò i suoi compagni, e disse:
“Amici, chi è questo dio possente che avete preso, e
tentate di legare?
Nemmeno la nave ben costruita riesce a portarlo.
Certo, infatti, egli è Zeus, o Apollo dall’arco
d’argento,
o Posidone: poichè non è simile agli uomini mortali,
ma agli Dei che abitano le dimore dell’Olimpo.
Suvvia, lasciamolo andare sulla terra nera,
subito; e non mettete le mani su di lui, che egli,
adirato,
non scateni venti furiosi, e grande tempesta”.
Così parlava, e il capo inveì contro di lui con parole
di scherno:
“Sciagurato, bada al vento, e spiega con me la vela
della nave
Manovrando tutti i cavi: a costui penseranno gli
uomini.
Io prevedo che egli verrà fino all’Egitto, o a Cipro,
o fra gl’Iperborei, o più lontano, ma infine
una buona volta ci rivelerà i suoi amici e tutte le
ricchezze
e i suoi parenti; poichè un Dio ce lo ha mandato”.
Così dicendo issava l’albero e la vela della nave;
il vento soffiò in piena vela, e i marinai, dai due
lati,
tendevano i cavi. Ma ben presto apparvero loro fatti
prodigiosi.
Dapprima, sulla veloce nave nera, gorgogliava
vino dolce a bersi, profumato, da cui si effondeva un
aroma
soprannaturale: stupore prese tutti i marinai, quando
lo videro.
Subito dopo si distesero lungo il bordo superiore
della vela
Tralci di vite, da una parte all’altra, e ne pendevano
abbondanti
Grappoli; intorno all’albero si avviticchiava una nera
edera,
ricca di fiori, su cui crescevano amabili frutti;
e tutti gli scalmi erano inghirlandati. Essi allora,
vedendo queste
cose,
ordinavano al timoniere di guidare a terra la nave.
Ma il dio, sotto i loro occhi, nella nave, si
trasformò in un leone
dallo sguardo pauroso e bieco: essi fuggirono a poppa
e intorno al timoniere dall’animo saggio
si fermarono attoniti: il Dio, d’improvviso balzando,
ghermì il capo; e gli altri, evitando la sorte
funesta,
come videro, si gettarono fuori tutti insieme, nel
mare divino,
e diventarono delfini. Ma il Dio ebbe pietà del
timoniere:
lo trattenne, e gli concesse prospera sorte: e così
gli disse:
“Coraggio, nobile vecchio, caro al mio cuore;
io sono Dioniso dagli alti clamori, che generò la
madre
Semele, figlia di Cadmo, unendosi in amore con Zeus”.
Salve, o figlio di Semele dal bel volto: non è
possibile,
per chi si dimentica di te, comporre un dolce canto.
Inno Omerico a Dioniso
DIONISO
« Suol di Tebe, a te giungo. Io son Dïòniso,
generato da Giove, e
da Semèle figlia di Cadmo, a cui disciolse il grembo
del folgore la
fiamma. »
(Euripide, Le baccanti)
Dioniso, (in greco: Διόνυσος o anche Διώνυσος) è una
divinità della
mitologia greca.
È identificato a Roma con Bacco e la divinità italica
Liber Pater..
In senso più generale, Dioniso rappresentava
quell'energia naturale
che, per effetto del calore e dell'umidità, portava i
frutti delle
piante alla piena maturità. Era dunque visto come una
divinità benefica
per gli uomini da cui dipendevano i doni che la natura
stessa offriva:
tra questi, l'agiatezza, la cultura, l'ordine sociale
e civile. Ma
poiché questa energia tendeva a scomparire durante
l'inverno,
l'immaginazione degli antichi tendeva a concepire
talvolta un Dioniso
sofferente e perseguitato.
Origini
Satiro tiene in braccio Dioniso bambino, marmo, copia
Romana del II
secolo a.C. da un originale greco di Lisippo (ca. 300
a.C.), Roma,
Musei Vaticani.
Le notizie relative alle modalità della nascita di
Dioniso sono
intricate e contrastanti. Sebbene il nome di suo
padre, Zeus, è
indiscusso, quello di sua madre è invece vittima di
numerose
interpretazioni di autori. Alcuni dicono che il dio
fosse frutto degli
amori del dio con Demetra, sua sorella, oppure di Io,
o ancora di Lete;
altri ancora lo fanno figlio di Dione, oppure di
Persefone. .
Quest'ultima versione, nonostante non sia molto
accettata dai
mitografi, non è comunque stata scartata del tutto. In
alcune leggende
orfiche, la madre di Dioniso è definita "la regina
della morte" il che
fa appunto pensare a Persefone. Zeus stesso,
innamoratosi di sua
figlia, che era stata nascosta in una grotta per
volere di Demetra, si
tramutò in serpente e la raggiunse mentre era intenta
a tessere. La
fecondò, e la fanciulla partorì così due bambini,
Zagreo e lo stesso
Dioniso.
Tuttavia, la versione generalmente più conosciuta è
quella che vuole
come madre del dio Semele, figlia di Armonia e di
Cadmo, re di Tebe:
d'altra parte il suo nome può significare "la
sotterranea", se non si
riferisca a Selene, la dea Luna, che ribadisce così
all'immagine della
Terra intesa come grembo oscuro, ma stranamente
fecondo, che sottrae la
vita alla luce e l'assorbe per riprodurla, in un
eterno ciclo di morti
e resurrezioni. Anche sulle versioni del concepimento
di Dioniso, le
tradizioni non concordano: secondo alcuni, Zeus, dopo
aver raccolto ciò
che rimaneva del corpicino del diletto figlio Zagreo,
generato da
Persefone e ucciso dai Titani, cucinò il cuore del
fanciullo in un
brodo che fece bere alla giovane Semele, sua amante.
Oppure, il padre
degli dei stesso, innamorato perdutamente di Semele,
assunse l'aspetto
di un mortale per unirsi a lei nel talamo, rendendola
incinta di un
bambino.
L'ennesima scappatella di Zeus con una mortale non
restò oscura ad Era,
che si poteva ritenere l'unica moglie legittima del
dio. Infuriata, e
non potendo vendicarsi sul marito, la dea ispirò nelle
tre sorelle di
Semele invidia per la sorella, che nonostante fosse in
età da nubile,
poteva vantare già un amante e anche una gravidanza.
La povera Semele
subì le crudeli beffe di Agave, Ino e Autonoe, le
quali criticavano non
solo il fatto che fosse già incinta, ma anche che
nonostante il
concepimento, il padre del bambino non si era ancora
deciso a venire
fuori e a dichiararsi.
NASCITA
Nel frattempo, la regina degli dei, approfittando di
questi contrasti,
assunse l'aspetto di una vecchia anziana, Beroe,
nutrice della
fanciulla, la quale era sua assistente sin dalla
nascita. La regina
degli dei si presentò quindi a Semele, già incinta da
sei mesi, che,
credendola la nutrice, cominciò a parlare con lei fino
a quando il
discorso non cadde sul suo amante. La vecchia mise in
guardia Semele,
consigliandole di fare una singolare richiesta al suo
amante, ovvero
quella di rivelarle la propria identità, smettendo di
ingannarla e
nascondersi; altrimenti avrebbe potuto pensare che il
suo aspetto fosse
in realtà quello di un mostro. Secondo una versione
diversa, Semele era
a conoscenza dell'identità del suo amante ed Era
l'aveva messo in
guardia proprio dal fidarsi del dio, esortandola a
esigere una prova
della sua vera identità. Suggerì quindi di chiedere a
Zeus di
presentarsi a lei come quando si presentava al
cospetto di Era.
Zeus e Semele
Dopo qualche tempo, quando Zeus tornò nuovamente dalla
sua amante per
godere le gioie del sesso, Semele, memore delle parole
della vecchia,
pregò Zeus di rivelargli la sua identità e di smettere
di continuare a
fingere. Per timore della gelosia di sua moglie Era,
il dio rifiutò, e
a questo punto, Semele si oppose al condividere il suo
letto con lui.
Adirato, Zeus le apparve tra folgori e fulmini
accecanti, tanto che la
fanciulla, non potendo sopportare il tremendo
bagliore, venne
incenerita.
Secondo l'altra versione, quando il padre degli dei
tornò dalla sua
amante, Semele gli chiese di offrirle un regalo ed
egli promise di
esaudire qualsiasi desiderio della fanciulla. Semele
chiese allora al
re degli dei di manifestarsi in tutta la sua potenza.
Zeus, disperato,
fu costretto a realizzare tale richiesta e si recò al
cospetto di
Semele armato delle sue folgori. Come nella versione
precedente, la
giovane viene folgorata.
Per impedire che il bambino venisse bruciato, Gea, la
Terra, fece
crescere dell'edera fresca in corrispondenza del feto
del bambino; ma
Zeus, che non aveva dimenticato il bambino che ella
portava in seno,
incaricò Ermes (o secondo altri egli stesso), si
affrettò a strapparne
il feto dal suo ventre e praticò un'incisione sulla
sua coscia, nella
quale se lo cucì. Qui vi poté maturare altri tre mesi
e, passato il
tempo necessario, lo fece uscire fuori, perfettamente
vivo e formato.
Zeus gli diede il nome di Dioniso che appunto vuol
dire il "nato due
volte" o anche "il fanciullo della doppia porta".
Una tradizione lacone narrava diversamente la storia
della nascita di
Dioniso: il dio era nato normalmente a Tebe, da
Semele, ma Cadmo volle
esporre il bambino con la madre in un cofano, in mare.
I flutti
spinsero il cofano sulla costa della Laconia, dove
Semele, che era
morta, venne sepolta. Dioniso, invece, rimasto
miracolosamente in vita,
venne accolto dagli abitanti del posto e allevato.
Infanzia e giovinezza di Dioniso
Il neonato "nato dalla coscia di Zeus" già dalla sua
venuta al mondo
possedeva delle piccole corna con dei ricciolini
serpentini; Zeus lo
affidò immediatamente alle cure di Ermes.
Dioniso è il corrispettivo di Bacco, divinità romana,
e di Maimone,
divinità sarda.
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Dionisio greci
- Bacco romani
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Raggiunta la maturità, Era lo riconobbe come figlio di
Zeus, punendolo
con la pazzia. Egli vagò insieme al suo tutore Sileno
e un gruppo di
satiri e baccanti fino in Egitto, dove si batté con i
Titani,
restituendo ad Ammone lo scettro che questi gli
avevano rubato; in
seguito si diresse in oriente, verso l'India,
sconfiggendo numerosi
avversari lungo il suo cammino (tra cui il re di
Damasco, che scorticò
vivo) e fondando numerose città. Al suo ritorno gli si
opposero le
amazzoni, che egli aveva già precedentemente respinto
fino ad Efeso, ma
vennero sbaragliate dal dio e dal suo seguito. Fu
allora che decise di
tornare in Grecia in tutta la sua gloria divina, come
figlio di Zeus;
dopo essersi purificato dalla nonna Rea per i delitti
commessi durante
la pazzia, sbarcò in Tracia, ma lui e il suo seguito
vennero respinti
dal re Licurgo, che Rea fece impazzire per la
sconfitta inferta al dio.
Sottomessa la Tracia, passò in Beozia e poi alle isole
dell'Egeo, dove
noleggiò una nave da alcuni marinai diretti a Nasso;
questi ultimi si
rivelarono poi essere pirati che intendevano vendere
il dio come
schiavo in Asia, ma questi si salvò tramutando in vite
l'albero maestro
della nave e sé stesso in leone, popolando nel
contempo la nave di
fantasmi di animali feroci che si muovevano al suono
di flauti; i
marinai, sconvolti, si gettarono in mare e divennero
delfini. Giunse
all'isola di Nasso, dove incontrò * Arianna
abbandonata da Teseo e la
sposò, dopodiché riprese di nuovo il mare per la
Grecia.
Sbarcato ad Argo, Perseo gli eresse un tempio perché
placasse le donne
di quella città, fatte impazzire dal dio come
punizione per l'eccidio
dei suoi seguaci, permettendo a Dioniso di entrare
nell'Olimpo.
Dioniso Zagreo
Zagreo (Zαγρεύς), figlio di Zeus che, sotto forma di
serpente, si unì
alla figlia di Persefone. Tale nome appare per la
prima volta nel poema
dal VI secolo Alcmenoide, nel quale si dice: Potnia
veneranda e Zagreo,
tu che sai sopra tutti gli dei. Secondo Diodoro
Siculo, i Cretesi
consideravano Dioniso figlio di Zeus e Persefone e
loro conterraneo. Di
fatto gli epiteti di Dioniso a Creta erano Cretogeno,
Ctonio, in quanto
figlio della regina del mondo sotteraneo, e appunto
Zagreo.
Secondo il mito, Zeus aveva deciso di fare di Zegreo
il suo successore
nel dominio del mondo, provocando così l'ira di sua
moglie Era. Zeus
aveva affidato Zagreo ai Cureti affinchè lo
allevassero. Allora Era si
rivolse ai Titani, i quali attirarono il piccolo
Zagreo offrendogli
giochi, lo rapirono, lo fecero a pezzi e divorarono le
sue carni. Le
parti rimanenti del corpo di Zagreo furono raccolte da
Apollo, che le
seppellì sul monte Parnaso; Atena invece trovò il
cuore ancora
palpitante del piccolo e lo portò a Zeus.
In base alle diverse versioni: Zeus avrebbe mangiato
il cuore di
Zagreo, poi si sarebbe unito a Semele e questa avrebbe
partorito
Dioniso. Oppure, Zeus avrebbe fatto mangiare il cuore
di Zagreo a
Semele che avrebbe dato al dio divorato una seconda
vita, generando
appunto Dioniso.
Zeus punì i Titani fulminandoli, e dal fumo uscito dai
loro corpi in
fiamme sarebbero nati gli uomini.
Nei Canti Orfici, nell'elenco dei sovrani degli dei,
Dioniso è il
sesto; l'ultimo re degli dei, investito da Zeus; il
padre lo pone sul
trono regale, gli da lo scettro e lo fa re di tutti
gli dei. Sempre nei
Canti Orfici, Dioniso viene fatto a pezzi dai Titani e
ricomposto da
Apollo. E, parlando della nascita di Dioniso: La prima
è dalla madre,
un'altra è dalla coscia, la terza avviene quando, dopo
che è stato
straziato dai Titani, e dopo che Rea ha rimesso
insieme le sue membra,
egli ritorna in vita..
Un'antica etimologia popolare, farebbe risalire
di-agreus (perfetto
cacciatore), il nome Zagreo.
da http://daubau.it/enciclopedia/Dioniso
* Dioniso incontra Arianna
Appena sceso sulla spiaggia di Nasso, Dioniso fu
attirato dal convulso
pianto di una donna. Vide una fanciulla sulla sabbia
stesa che si
disperava e piangeva, al che il dio le si avvicinò e
cominciò a
consolarla, vide il volto della giovane e le asciugò
le lacrime, si
accorse di non aver mai visto una donna così bella e
nemmeno tanto
disperata; allora pregò la ragazza di raccontargli il
motivo di tanto
dolore e lei tra pianti e sospiri prese a raccontare.
La giovane donna
si chiamava Arianna, figlia del re di Creta, Minosse e
di Pasifae.
Arianna raccontò del suo amore per Teseo, che aveva
aiutato nel
Labirinto,
raccontò della promessa di Teseo di ricambiare il suo
aiuto prendendola
in sposa e del tradimento del ragazzo che una volta
ricevuto l'aiuto
abbandonò la giovane fanciulla sulla riva del mare.
Dioniso aveva
partecipato con tutto il suo animo al racconto di
questa storia d'amore
e tradimento; quando Arianna smise di piangere si fece
riconoscere come
dio e le chiese di diventare sua moglie. Sorpresa
Arianna taceva,
allora Dioniso prese la corona gemmata che portava e
la posò sul capo
della donna, quel gesto valeva più di un giuramento e
Arianna ne
comprese subito il significato. Zeus acconsentì alle
nozze dal cielo,
trasformando quella corona in stelle. Alle nozze
assistette tutta la
corte di Dioniso, che col capo ricoperto di ghirlande
di pampini e
agitando il tirso, si mise a cantare un gioioso
epitalamio. Un carro
d'oro, tirato da sei pantere, trasportò i giovani
sposi in una dimora
sconosciuta.
L'arcaicità di alcune feste pubbliche
A partire da Pisistrato, si celebravano ad Atene
quattro feste in onore
di Dioniso [7]. Le ‘Dionisie campestri', che si
svolgevano in dicembre,
erano feste dei villaggi e consistevano nel portare in
processione un
fallo di grandi dimensioni con accompagnamento di
canti. Cerimonia
tipicamente arcaica e ampiamente diffusa in tutto il
mondo, la
falloforia ha certamente preceduto il culto di
Dioniso. Altri
divertimenti rituali prevedevano gare e contese, e
soprattutto sfilate
di maschere o di personaggi travestiti da animali.
Anche qui i riti
hanno preceduto Dioniso, ma si può intuire come il dio
del vino sia
giunto a mettersi alla testa del corteo di maschere.
Molto di meno sappiamo invece sulle feste lenee, che
si svolgevano in
pieno inverno. Una citazione di Eraclito precisa che
la parola Lenai e
il verbo ‘far le Lenai' venivano usati come
equivalenti di ‘baccanti' e
di ‘fare la baccante'. Il dio era evocato mediante il
daduchos. Secondo
una glossa di un verso di Aristofane, il sacerdote
eleusino, «con una
torcia in mano, esclama: Chiamate il dio! e gli
astanti gridano: Figlio
di Semele, Iacchos [8], dispensatore di ricchezze!».
Le Antesterie erano celebrate approssimativamente in
febbraio-marzo, e
le ‘Grandi Dionisie', d'istituzione più recente, in
marzo-aprile.
Tucidite (II, 15, 4) considerava le Antesterie la più
antica festa in
onore di Dioniso. Era anche la più importante. Il
primo giorno si
chiamava Pithoigia, apertura dei vasi d'argilla
(pithoi) nei quali si
conservava il vino dopo il raccolto autunnale. Si
portavano i vasi al
santuario di ‘Dioniso della palude' per compiere le
libagioni al dio, e
in seguito si gustava il vino nuovo. Nel s econdo
giorno (Choes, le
brocche) si svolgeva una gara di bevitori: erano
forniti di una brocca
che veniva riempita di vino e, al segnale, ne
trangugiavano il
contenuto il più velocemente possibile. Proprio come
certe gare delle
‘Dionisie campestri' (per esempio l'askoliasmos, in
cui i giovani
cercavano di mantenersi il più a lungo possibile in
equilibrio su di un
otre previamente oliato), anche questa competizione si
articola nello scenario ben noto delle gare e
dei giochi di ogni
specie (sportivi, oratorî, ecc.) che tende al
rinnovamento della vita
[9]. Ma l'euforia e l'ebbrezza anticipano in un certo
qual modo la vita
di un aldilà che non assomiglia più al triste mondo
omerico.
Lo stesso giorno delle Choes si formava un corteo che
raffigurava
l'arrivo del dio nella città. Poiché si riteneva
venisse dal mare, il
corteo comprendeva una barca trasportata su quattro
ruote di carro, in
cui si trovava Dioniso con un grappolo d'uva in mano e
due satiri nudi
che suonavano il flauto. La processione comprendeva
parecchi personaggi
probabilmente mascherati, e un toro sacrificale
preceduto da un
suonatore di flauto e da portatori di ghirlande che si
dirigevano verso
l'unico santuario aperto quel giorno, l'antico
Limnaion. Là si
svolgevano diverse cerimonie, a cui partecipavano la
Basilimna, la
‘Regina' cioè la moglie dell'Arconte-Re, e quattro
dame di alto rango.
A partire da questo momento, la Basilimna, erede delle
antiche regine
della città, era considerata la sposa di Dioniso.
Saluva accanto a lui
nel carro e un nuovo corteo, di tipo nuziale, si
dirigeva verso il
Boukoleion, l'antica residenza reale. Aristotele
precisa (Cost. di
Atene, 3, 5) che la ierogamia tra il dio e la
regina si consumava
nel Boukoleion (lett. ‘stalla del bue') e la scelta di
questo luogo
indica che l'epifania taurina di Dioniso era ancora
ben nota.
Si è cercato di interpretare quest'unione in senso
simbolico, o
supponendo che il dio venisse personificato
dall'Arconte. Ma W. Otto
sottolinea giustamente l'importanza della
testimonianza di Aristotele
[10]. La Basilinna riceve il dio nella casa del suo
sposo, l'erede dei
re - e Dioniso si rivela in quanto re. È probabile che
questa unione
simboleggi il matrimonio del dio con la città nel suo
complesso, con le
conseguenze faste che si possono immaginare. Ma è un
atto
caratteristico di Dioniso, divinità dalle epifanie
brutali, che
richiede la proclamazione pubblica della sua
supremazia. Non si conosce
nessun altro culto greco in cui si ritiene che un dio
si unisca con la
regina.
I tre giorni delle Antesterie, soprattutto il secondo,
quello del
trionfo di Dioniso, sono però giorni nefasti, perché
segnati dal
ritorno delle anime dei morti, e insieme a loro dei
keres, portatori di
influenze malefiche del mondo infero.
A loro era consacrato l'ultimo giorno delle
Antesterie. Si pregava per
i morti, si preparavano le panspermie, poltiglie di
diversi grani
cereali che dovevano essere consumate prima del cader
della notte. E,
arrivata la notte, si gridava: «Fuori i keres/ Finite
le Antesterie!».
Lo sfondo rituale è ben noro, ed è attestato un po'
ovunque nelle
civiltà agricole. I morti e le potenze dell'oltretomba
governano la
fertilità e le ricchezze, e ne sono i dispensatori.
«Dai morti -è
scritto in un trattato ippocratic- ci vengono
nutrimento, crescita e
germe».. In tutte le cerimonie a lui dedicate, Dioniso
si rivela al
tempo stesso il dio della fertilità e della morte.
Eraclito (fr. 15)
diceva già che «Ade e Dioniso [...] sono un'unica e
medesima persona».
Abbiamo già ricordato il rapporto di Dioniso con le
acque, l'umidità e
la linfa vegetale. E dobbiamo anche segnalare i
‘miracoli' che
accompagnano le sue epifanie, o le annunciano: l'acqua
che sgorga dalla
roccia, i fiumi che si colmano di latte e miele. A
Teos, nel giorno
della sua festa, una sorgente fa sgorgare vino in
abbondanza (Diodoro
Siculo, III, 66, 2). A Elide, tre scodelle vuote,
lasciate durante la
notte in una camera sigillata, all'indomani vengono
ritrovate piene di
vino (Pausania, VI, 2, 6, 1-2). ‘Miracoli' di questo
tipo sono
attestati anche altrove; il più famoso tra questi era
quello delle
‘vigne di un giorno', che fiorivano e rpoducevano uva
in poche ore,
‘miracolo' che avveniva in diversi luoghi, perché ne
parlano parecchi
autori [11].
Euripide e le orge dionisiache
Simili ‘miracoli' sono specifici del culto sfrenato ed
estatico di
Dioniso che riflette l'elemento più originale, e
probabilmente più
antico, del dio. Nelle Baccanti di Euripide troviamo
una testimonianza
inestimabile di ciò che ha potuto rappresentare
l'incontro tra il genio
greco e il fenomeno delle orge dionisiache. Lo stesso
Dioniso è il
protagonista delle Baccanti, fatto senza precedenti
nell'antico teatro
greco.. Offeso perché il suo culto era ancora ignorato
in Grecia,
Dioniso arriva dall'Asia con un gruppo di Menadi e si
ferma a Tebe,
città natale di sua madre. Le tre figlie del re Cadmo
negano che la
loro sorella, Semele, sia stata amata da Zeus e che
abbia generato un
Dio. Dioniso le rende ‘folli' e le sue zie, con le
altre donne di Tebe,
corrono verso la montagna a celebrarvi riti
orgiastici. Penteo, che era
succeduto al trono a suo nonno Cadmo, aveva proibito
il culto e,
malgrado gli avvertimenti ricevuti, si ostinava nella
sua
intransigenza. Travestito da officiante del
proprio culto,
Dioniso è catturato e imprigionato da Penteo. Ma
riesce miracolosamente
a fuggire e persino a persuadere Penteo ad andare a
spiare le donne
durante le loro cerimonie orgiastiche. Le Menadi
scoprono così Penteo e
lo fanno a pezzi: sua madre Agave ne porta in trionfo
la testa,
credendo che si tratti della testa di un leone [12].
Qualunque fosse l'intento di Euripide nello scrivere
le Baccanti,
questo capolavoro della tragedia greca costituisce
nello stesso tempo
anche il documento più importante del culto
dionisiaco, in cui il tema
«resistenza, persecuzione e trionfo» trova la sua
illustrazione più
evidente [13]. Penteo si oppone a Dioniso perché è uno
«straniero, un
predicatore, un mago [...] dai bei boccoli biondi e
profumati, guance
di rosa, con negli occhi la grazia di Afrodite. Con il
pretesto di
insegnare le dolci e seducenti pratiche dell'evoé,
corrompe le
fanciulle» (233 ss). Le donne vengono incitate ad
abbandonare la loro
casa e a correre, la notte, per i monti, danzando al
suono dei timpani
e dei flauti. E Penteo teme soprattutto l'influenza
del vino, perché
«con le donne, se il liquor d'uva figura sulla mensa,
non promette
nulla di buono in queste devozioni» (260-262).
Tuttavia non è il vino a provocare l'estasi delle
baccanti. Un servo di
Penteo, che le aveva sorprese all'alba sul Citerone,
le descrive
vestite di pelli di cerbiatto, coronate d'edera, cinte
di serpenti, che
recavano in braccio, allattandoli, cerbiatti o
lupacchiotti selvatici
(695 ss.). Abbondano i ‘miracoli' tipicamente
dionisiaci: le baccanti
toccano la roccia con i loro tirsi e subito ne
scaturisce l'acqua o ne
sgorga il vino; grattano la terra e trovano polle di
latte, mentre i
tirsi cinti d'edera stillano gocce di miele (703 ss.)
«Certo -continua
il servo- se tu fossi stato là, questo dio che tu
disprezzi, ti saresti
convertito a lui, rivolgendogli le tue preghiere, dopo
un tale
spettacolo» (712-714).
Sorpreso da Agave, poco mancò che il servo e i suoi
compagni venissero
dilaniati. Le baccanti si gettarono allora sugli
animali che pascolano
nel prato e, «senza nessun ferro in mano» li fanno a
brani. «Sotto
l'opera delle mille mani delle fanciulle», tori
minacciosi sono
dilaniati in un batter d'occhio. Le Menadi si
abbattono in seguito
sulla pianura. «Vanno a strappar via i bambini dalle
case. Tutto ciò
che si caricano sulle spalle, pur senza esservi
attaccato, vi aderisce
senza cadere nel fango; anche il bronzo, anche il
ferro. Sui loro
boccoli il fuoco trascorre senza bruciare.Infuriati
per essere stati
assaliti dalle baccanti, si corre alle armi. Ed ecco
il prodigio che
tu, Signore, avresti dovuto vedere: le frecce che si
lanciavano contro
di loro non facevano sgorgare sangue, ed esse,
scagliando il loro
tirso, li ferivano...» (754-763).
Inutile sottolineare la differenza tra questi riti
notturni, sfrenati e
selvaggi, e le feste dionisiache pubbliche, di cui
abbiamo parlato
prima. Euripide ci presenta un culto segreto,
specifico dei Misteri.
«Che cosa sono, s econdo te, questi Misteri?»
s'informa Penteo. E
Dioniso risponde: «La loro segretezza vieta di
comunicarli a coloro che
non sono baccanti». «Qual è la loro utilità per coloro
che li
celebrano?» - «Non ti è lecito apprenderlo, ma sono
cose degne di
essere conosciute» (470-474).
Il Mistero era costituito dalla partecipazione delle
baccanti
all'epifania totale di Dioniso. I riti vengono
celebrati di notte,
lontano dalla città, sui monti e nelle foreste.
Attraverso il
sacrificio della vittima per squartamento (sparagmos)
e la consumazione
della carne cruda (omofagia) si realizza la comunione
con il dio,
perché gli animali fatti a brani e divorati sono
epifanie, o
incarnazioni, di Dioniso. Tutte le altre esperienze
-la forza fisica
eccezionale, l'invulnerabilità al fuoco e alle armi, i
‘prodigi'
(l'acqua, il vino, il latte che scaturiscono dal
suolo), la
‘dimestichezza' con i serpenti e i piccoli delle
bestie feroci- sono
resi possibili dall'entusiasmo, dall'identificazione
con il dio.
L'estasi dionisiaca significa anzitutto il superamento
della condizione
umana, la scoperta della liberazione totale, il
raggiungimento di una
libertà e di una spontaneità inaccessibili ai mortali.
Che tra queste
libertà ci sia stata anche
la liberazione dalle proibizioni, dalle regole e
dalle
convenzioni di tipo etico e sociale, sembra essere
certo; e questo
spiega in parte l'adesione massiccia delle donne [14].
L'esperienza
dionisiaca però raggiungeva livelli più profondi. Le
baccanti che
divoravano le carni crude ritornavano a un
coportamento rimosso da
decine di migliaia di anni; sfrenatezze di questo tipo
rivelavano una
comunione con le forze vitali e cosmiche che si poteva
interpretare
soltanto come una possessione divina. E non stupisce
che la possessione
sia stata confusa con la ‘follia', la mania. Dioniso
stesso aveva
conosciuto la ‘follia', e la baccante si limitava a
condividere le
prove e la passione del dio, e questo era, in
definitiva, uno dei mezzi
più sicuri per comunicare con lui.
I Greci conoscevano altri casi di mania provocata da
una divinità.
Nella tragedia Eracle di Euripide, la follia dell'eroe
è opera di Era:
nell'Aiace di Sofocle è Atena a produrre lo
sconvolgimento psichico. Il
‘coribantismo', che gli antichi del resto accostavano
alle orge
dionisiache, era una mania provocata dalla possessione
dei Coribanti, e
tale esperienza sfociava in una vera e propria
iniziazione. Ciò che
tuttavia contraddistingue Dioniso e il suo culto non
sono le crisi
psicopatiche, ma il fatto che esse fossero valorizzate
in quanto
esperienza religiosa: sia come una punizione sia come
una grazia del
dio [15]. In ultima analisi, l'interesse di un
confronto tra riti e
movimenti collettivi apparentemente similari -per
esempio certe danze
sfrenate del Medioevo o l'omofagia rituale degli
Aissaua, una
confraternita mistica dell'Africa del Nord [16]- sta
nel fatto che esso
fa emergere l'originalità del dionisismo.
È raro che un dio giunga all'epoca storica pregno di
un'eredità così
arcaica; riti con maschere teromorfiche, falloforia,
sparagmos,
omofagia, antropofagia, mania, enthousiasmos. Il fatto
più notevole è
che, pur conservando quest'eredità, residuo della
preistoria, il culto
di Dioniso, dopo essersi integrato nell'universo
spirituale dei Greci,
non ha cessato di creare nuovi valori religiosi.
Certo, la frenesia
provocata dalla possessione divina -la ‘follia'- dava
da pensare a
molti autori, e spesso incoraggiava l'ironia e la
derisione. Erodoto
(IV, 78-80) riferisce l'avventura di un re scita,
Skylas, che si era
fatto «iniziare ai riti di Dioniso Baccheios» a Olbia
sul Boristene
(Dniepr). Durante la cerimonia (telete), posseduto dal
dio, faceva «il
baccante e il folle». Con molta probabilità si
trattava di una
processione in cui gli iniziati, «sotto il dominio del
dio» si
lasciavano trascinare da una frenesia che gli astanti,
e anche gli
stessi posseduti, consideravano come ‘follia'
(mania).
Erodoto si limitava a riferire una storia che gli era
stata raccontata
a Olbia. Demostene, con l'intenzione di mettere in
ridicolo il suo
avversario Eschine, ci rivela però in realtà, in un
suo celebre passo
(Sulla corona, 259), certi riti dei piccoli tiasi
(Bacchein) celebrati,
nell'Atene del IV secolo, dai fedeli di Sabazios, dio
tracio omologo di
Dioniso. (Gli antichi lo consideravano d'altra parte
come Dioniso
tracio nel suo nome indigeno) [17]. Demostene si
riferisce ai riti
seguiti da letture di ‘libri' (probabilmente un testo
scritto,
contenente hieroi logoi); parla di ‘nebrizzare'
(allusione alla pelle
del cerbiatto, la nebride; si trattava forse di un
sacrificio con la
consumazione dell'animale crudo), di ‘craterizzare'
(il bacile in cui
si mescolavano l'acqua e il vino, la ‘pozione
mistica'), di
‘purificazione' (catharmos), consistente in specie
nello sfregare
l'iniziato con argilla e farina. Alla fine l'accolito
faceva rialzare
l'iniziato dalla sua posizione prona o supina, e
questi ripeteva
la formula: «Sono sfuggito al male e ho trovato il
meglio». E tutta
l'assemblea esplodeva in ololyge. All'indomani si
svolgeva la
processione degli adepti, col capo coronato di
finocchio e di fronde di
pioppo bianco. In testa camminava Eschine brandendo
serpenti e
gridando: «Evoé, misteri di Sabazios!», e danzando al
grido di Hyés,
Attés, Attés, Hyés. Demostene parla anche di un cesto
di forma di
vaglio, il liknon, il ‘vaglio mistico', la culla
primitiva di Dioniso
bambino.
Sotto le forme più diverse si trova comunque, al
centro del rituale
dionisiaco, un'esperienza estatica di una frenesia più
o meno intensa:
la mania Questa ‘follia' costituiva in qualche modo la
prova della
‘divinizzazione' (entheos) dell'adepto. L'esperienza
era certamente
indimenticabile, perché si partecipava alla
spontaneità creatrice e
alla libertà inebriante, alla forza sovrumana e
all'invulnerabilità di
Dioniso. La comunione con il dio faceva esplodere per
un certo tempo la
condizione umana, ma non giungeva affatto a cambiarla.
Non ci sono
allusioni all'immortalità nelle Baccanti, neppure in
un'opera tardiva
come le Dionisiache di Nonno. Ciò è sufficiente a
distinguere Dioniso
da Zalmoxis, con cui lo si confronta, e a volte lo si
confonde, in
seguito agli studi di Rohde; infatti questo dio dei
Geti
‘immortalizzava' gli iniziati nei suoi misteri. Ma i
Greci non ardivano
ancora colmare la distanza infinita che, ai loro
occhi, separava
la divinità dalla condizione umana.
Quando i Greci riscoprirono la presenza del Dio...
Pare ormai assodato il carattere iniziatico e segreto
dei tiasi privati
(v. supra, le Baccanti 470-474) [18], benché almeno
una parte delle
cerimonie (per esempio le processioni) siano state
pubbliche. È
difficile precisare quando, e in quali circostanze, i
riti segreti e
iniziatici dionisiaci abbiano assunto la funzione
specifica alle
religioni dei Misteri. Eminenti studiosi quali Nilsson
e Festugière
contestano l'esistenza di un Mistero dionisiaco,
perché mancano precisi
riferimenti alla speranza escatologica. Ma si potrebbe
obiettare che,
soprattutto per il periodo antico, disponiamo di
scarsissime conoscenze
dei riti segreti, per non dire poi del loro
significato esoterico (che
senza dubbio esisteva, dato che i significati
esoterici dei riti
segreti sono attestati ovunque nel mondo, a tutti i
livelli di
cultura).
Non si deve inoltre limitare la morfologia della
speranza escatologica
alle espressioni rese familiari dall'orfismo o dai
Misteri dell'epoca
ellenistica. L'occultamento e l'epifania di Dioniso,
le sue discese
agli Inferi (paragonabili a una morte seguita da
risurrezione) e
soprattutto il culto di Dioniso fanciullo [19], con
riti celebranti il
suo risveglio -pur tralasciando il tema mitico rituale
di
Dioniso-Zagreus, su cui ritorneremo tra breve-
indicano la volontà, e
la speranza, di un rinnovamento spirituale. Il
fanciullo divino è
pregno, in tutto il mondo, di un simbolismo iniziatico
relativo al
mistero di una ‘rinascita' d'ordine mistico. (Per
l'esperienza
religiosa è più o meno indifferente che tale
simbolismo sia o non sia
‘compreso' intellettualmente). Ricordiamo che il culto
di Sabazios,
identificato con Dioniso, presentava già la struttura
di un mistero
(«Sono sfuggito al male!»). È vero che le Baccanti non
parlano
d'immortalità, ma
la comunione, anche se provvisoria, con il dio
non mancava di
influire sulla condizione post mortem del bacchos. La
presenza di
Dioniso nei Misteri d'Eleusi fa supporre il
significato escatologico
perlomeno di alcune esperienze orgiastiche.
Il carattere ‘misterico' del culto si precisa
soprattutto a partire da
Dioniso-Zagreus. il mito dello smembramento del
fanciullo
Dioniso-Zagreus ci è pervenuto soprattutto attraverso
autori cristiani
[20]. Come prevedibile, essi ce lo presentano
evemerizzato, incompleto
e in modo piuttosto tendenzioso. Ma proprio perché
erano liberi dalla
proibizione di parlare apertamente di cose sante e
segrete, gli
scrittori cristiani ci hanno comunicato molti
particolari preziosi. Era
invia i Titani, che attirano Dioniso-Zagreus con
alcuni balocchi
(ninnoli, crepundia, uno specchio, un gioco di
aliossi, una palla, una
trottola, un rombo), lo massacrano e lo fanno a pezzi.
Fanno cuocere i
pezzi in un calderone e, secondo certe versioni, lo
divorano. Una dea
-Atena, Rea o Demetra- riceve, o salva, il cuore e lo
pone in un
cofanetto. Venuto a sapere del d elitto, Zeus folgora
i Titani. Gli
autori cristiani non accennano alla resurrezione di
Dioniso, ma questo
episodio era noto agli antichi. L'epicureo
Filodemo,
contemporaneo di Cicerone, parla delle tre nascite di
Dioniso, «la
prima da sua madre, la seconda dalla coscia e la terza
quando, dopo lo
squartamento da parte dei Titani, ritorna in vita dopo
che Rea ne ha
ricomposto le membra» [21]. Firmico Materno conclude
aggiungendo che a
Creta (dov'egli ambienta la sua storia evemerizzata)
l'assassinio
veniva commemorato da riti annuali, che ripetevano ciò
che il
«fanciullo aveva compiuto e subìto al momento della
morte»: «nel
profondo della foresta, emettono strani clamori e
simulano la follia di
un essere furioso», facendo credere che il delitto è
stato compiuto in
preda a follia e «dilaniano coi denti un toro vivo».
Il tema mitico-rituale della passione e risurrezione
del fanciullo
Dioniso-Zagreus ha suscitato interminabili
controversie, soprattutto a
causa delle sue interpretazioni ‘orfiche'. In questa
sede è sufficiente
precisare che le informazioni trasmesse dagli autori
cristiani sono
confermate dagli autori più antichi. Il nome di
Zagreus viene
menzionato per la prima volta in un poema epico del
ciclo tebano,
Alcmeone (VI secolo) [22] e significa ‘gran
cacciatore', in riferimento
al carattere selvaggio e orgiastico di Dioniso. Per
quanto riguarda il
delitto dei Titani, Pausania (VIII, 37, 5) ci ha
trasmesso
un'informazione che resta preziosa, malgrado lo
scetticismi di
Wilamowitz e di altri studiosi: Onomacrito, che viveva
ad Atene nel VI
secolo, al tempo dei Pisistrati, aveva scritto un
poema sul seguente
soggetto: «Avendo desunto il nome dei Titani da Omero,
aveva fondato
alcune orgia di Dioniso, facendo dei titani gli autori
delle sofferenze
del
dio». Secondo il mito, i Titani si erano
avvicinati al fanciullo
divino impiastricciati di gesso per non essere
riconosciuti. Orbene,
nei misteri di Sabazios celebrati ad Atene, uno dei
riti iniziatici
consisteva nel cospargere i candidati con una polvere
o con del gesso
[23] e questi due fatti sono stati accostati sin
dall'antichità (cfr.
Nonno, Dionys., XXVII, 228 ss.). Si tratta di un
rituale arcaico
d'iniziazione, ben noto nelle società ‘primitive': i
novizi si sfregano
sul viso polvere o cenere, allo scopo di assomigliare
ai fantasmi; in
altri termini, subiscono una morte rituale. Per quanto
riguarda i
‘balocchi mistici', essi erano conosciuti già da
tempo; in un papiro
del II secolo a. C., trovato a Fayyûm (Gouroub),
disgraziatamente
mutilo, si citano la trottola, il rombo, gli aliossi e
lo specchio
(Orf. Fr., 31).
L'episodio più drammatico del mito -e cioè il fatto
che, dopo aver
squartato il fanciullo, i Titani ne abbiano gettato i
pezzi in un
calderone, dove li hanno fatti bollire e poi
arrostire- era noto, in
tutti i suoi particolari, già nel IV secolo e, fatto
ancor più
significativo, si ricordavano questi particolari in
relazione con la
‘celebrazione dei Misteri' [24]. Jeanmaire aveva
opportunamente
ricordato che la cottura in pentola o il passaggio
attraverso il fuoco
costituiscono riti iniziatici che conferiscono
l'immortalità (cfr.
l'episodio di Demeter e Demofonte) o il
ringiovanimento (le figlie di
Peleo fanno a pezzi il padre e lo cuociono in una
pentola) [25].
Aggiungiamo che i due riti -smembramento e cottura o
passaggio
attraverso il fuoco- caratterizzano le iniziazioni
sciamaniche.
Nel ‘delitto dei Titani' si può dunque riconoscere un
antico scenario
iniziatico di cui si era perduto il significato
originario. I Titani si
comportano da Maestri d'iniziazione, vale a dire
‘uccidono' il novizio,
allo scopo di farlo ‘ri-nascere' a un tipo superiore
di esistenza (nel
nostro esempio si potrebbe dire che essi conferiscono
divinità e
immortalità al fanciullo Dioniso). Ma, in una
religione che proclamava
la supremazia assoluta di Zues, i Titani potevano
svolgere soltanto un
ruolo demoniaco -e perciò furono fulminati. Secondo
alcune varianti,
gli uomini sono stati creati dalle loro ceneri -e
questo mito ha svolto
un ruolo considerevole nell'orfismo.
Il carattere iniziatico dei riti dionisiaci si può
scorgere anche a
Delfi, quando le donne celebravano la rinascita del
dio. Infatti il
vaglio d elfico «conteneva un Dioniso smembrato e
pronto a rinascere,
uno Zagreus», come dice Plutarco (De Iside, 35), e
questo Dioniso «che
rinasceva come Zagreus era allo stesso tempo il
Dioniso tebano, figlio
di Zeus e di Semele» [26].
Diodoro Siculo sembra riferirsi ai Misteri dionisiaci,
quando scrive
che «Orfeo ha trasmesso nelle cerimonie dei misteri lo
smembramento di
Dioniso» (V, 75, 4). E in un altro passo Orfeo viene
presentato come un
riformatore dei Misteri dionisiaci: È per questo che
le iniziazioni
dovute a Dioniso sono chiamate orfiche» (III, 65, 6).
La tradizione
trasmessa da Diodoro è preziosa in quanto conferma
l'esistenza dei
Misteri dionisiaci. Ma è probabile che già nel V
secolo questi Misteri
avessero mutuato alcuni elementi ‘orfici', e in
effetti Orfeo era
proclmato «profeta di Dioniso» e «fondatore di tutte
le iniziazioni»
(v. cap. XIX, vol. II).
Più ancora degli altri dèi greci, Dioniso sorprende
per la molteplicità
e la novità delle sue epifanie, per la varietà delle
sue
trasformazioni. È in perenne movimento; penetra
ovunque, in tutti i
paesi, presso tutti i popoli, in tutte le religioni,
pronto ad
associarsi a divinità diverse, anzi perfino
antagoniste (per esempio
Demetra, Apollo). È, senza dubbio, l'unico dio greco
che, rivelandosi
sotto aspetti differenti, affascina e attrae tanto i
contadini che le
élites intellettuali, i politici e i contemplativi,
gli orgiastici e
gli a sceti. L'ebbrezza, l'erotismo, la fertilità
universale, ma anche
le esperienze indimenticabili suscitate dal ritorno
periodico dei
morti, o dalla mania, dallo sprofondare
nell'incoscienza animale o
dall'estasi dell'enthousiasmos - tutti questi terrori
e rivelazioni
hanno un'unica origine: la presenza dei dio. La sua
natura esprime
l'unità paradossale della vita e della morte. Per
questo, Dioniso
costituisce un
tipo di divinità radicalmente diverso dagli
Olimpî. Era forse,
tra tutti gli dèi, il più vicino agli uomini? In ogni
caso ci si poteva
avvicinare a lui, si giungeva a incorporarlo, e
l'estasi della mania
dimostrava che la condizione umana poteva essere
oltrepassata.
Questi rituali erano suscettibili di sviluppi
inattesi. Il ditirambo,
la tragedia, il dramma satirico sono, in modo più o
meno diretto,
creazioni dionisiache. È appassionante seguire la
trasformazione di un
rito collettivo, il dithyrambos, implicante la
frenesia estatica, in
spettacolo e infine in genere letterario [27]. Se, da
un lato, certe
liturgie pubbliche sono diventate spettacoli e hanno
fatto di Dioniso
il Dio del teatro, altri rituali invece, segreti e
iniziatici, si sono
evoluti in Misteri. Perlomeno indirettamente,
l'orfismo è debitore alle
tradizioni dionisiache. Più di tutti gli altri dèi
olimpici, questo dio
giovane non cesserà di gratificare i suoi fedeli con
nuove epifanie,
messaggi inattesi e speranze escatologiche.
Note
[1] Pindaro, fr. 85; Erodoto, II, 146; Euripide, Le
Baccanti, 94 ss.;
Apollodoro, Bibl., III, 4, 3, ecc.
[2] Iliade, XIV, 323, la definisce «una donna di
Tebe», ed Esiodo,
Teogonia, 940 ss., una «donna mortale».
[3] Cfr. H. Jeanmaire, Dionysos, p. 76; su Licurgo e
le iniziazioni di
pubertà, cfr. id., Couroï et Courètes, p. 463 ss.
[4] Si tratta di un frammento di Pilo (X a 0 6) nella
lineare B.
[5] Si è cercato di vedere in Dioniso un dio
dell'albero, del ‘grano' o
della vite, e si è interpretato il mito del suo
smembramento come
un'illustrazione della ‘passione' dei cereali o la
preparazione del
vino; già i mitografi citati da Diodoro, III, 62.
[6] Cfr. i testi e i riferimenti discussi da W. Otto,
pp. 162-164.
[7] Il fatto che queste due feste portassero i nomi
dei mesi
corrispondenti -Lenaion e Antesterion- dimostra il
loro arcaismo e il
loro carattere panellenico.
[8] Fu il genio delle processioni dei Misteri eleusini
ad essere
assimilato a Dioniso; le fonti sono discusse da W.
Otto, op. cit., p.
80; cfr. Jeanmaire, op. cit., p. 47.
[9] Ricordiamo che si tratta di uno scenario
estremamente arcaico e
diffuso ovunque, uno dei principali retaggi della
preistoria che svolge
ancora un ruolo privilegiato in ogni forma di società.
[10] Si tratta di un'unione completamente diversa da
quella, per
esempio, di Bel a Babilonia (la compagnia di una
ierodula quando il dio
si trovava nel tempio) o della sacerdotessa che doveva
dormire nel
tempio di Apollo a Patara, allo scopo di ricevere
direttamente dal dio
la saggezza che poi avrebbe rivelato attraverso
l'oracolo; cfr. Otto,
p. 84.
[11] Sofocle, Tieste (fr. 234) e le altre fonti citate
da Otto, p. 98
ss.
[12] Si conoscono altri esempi di ‘follia' provocata
da Dioniso, quando
non era riconosciuto come dio: ad esempio, le donne di
Argo
(Apollodoro, II, 2, 2; III, 5, 2); le figlie di Minia
a Orcomeno, che
dilaniarono e divorarono uno dei loro figli (Plutarco,
Quaest. gr.
XXXVIII, 299 e).
[13] Nel V secolo Tebe era diventata il centro del
culto, perché là
Dioniso era stato generato e là si trovava anche la
tomba di Semele.
Ciò nondimeno non si era scordata la resistenza dei
primi tempi e uno
degli insegnamenti delle Baccanti era senz'altro
questo: che non si
deve rifiutare un dio perché lo si considera ‘nuovo'.
[14] Tiresia difende però il dio: «Dioniso non obbliga
le donne ad
essere caste. La castità dipende dal carattere, e
quella che è casta di
natura parteciperà alle orge senza corrompersi»
(Bacc., 314 ss.).
[15] Ricordiamo che ciò che distingue uno sciamano da
uno psicopatico è
il fatto che egli riesce a guarirsi e finisce poi col
disporre di una
personalità più forte e più creativa del resto della
comunità.
[16] Rohde aveva confrontato l'espansione della
religione estatica di
Dioniso e le epidemie di danze convulsive del
Medioevo. R. Eisler
richiamò l'attenzione sugli Aissaua (Isawiya), che
praticano l'omofagia
rituale (chiamata frissa, dal verbo farassa,
‘sbranare'). Dopo essersi
identificati misticamente nei carnivori, di cui
portano il nome
(sciacalli, pantere, leoni, gatti, cani), gli adepti
fanno a brani,
sventrano e divorano bovini, lupi, montoni, pecore,
capre. La
manducazione delle carni crude è seguita da una danza
sfrenata di
giubilo «per gioire ferocemente dell'estasi e
comunicare con la
divinità» (R. Brunnel).
[17] Secondo le antiche glosse, il termine saboi (o
sabaioi) era
l'equivalente, in lingua frigia, del greco bacckhos;
cfr. Jeanmaire,
Dionysos, pp. 95-97.
[18] Ricordiamo che durente la festa delle Antesterie,
certi riti erano
effettuati unicamente dalle donne, nel segreto più
rigoroso.
[19] Il culto di Dioniso fanciullo era conosciuto in
Beozia e a Creta,
ma finì per diffondersi anche in Grecia.
[20] Firmico Materno, De errore prof. relig., 6;
Clemente Alessandrino,
Protrept., II, 17, 2; 18, 2; Arnobio, Adv. Nat., V,
19; i testi sono
riprodotti in Kern, Orphica fragmenta, pp. 110-111.
[21] De piet., 44; Jeanmaire, p. 382.
[22] Fr. 3, Kinkel I, p. 77; cfr. anche Euripide, fr.
472; per
Callimaco (fr. 171) Zagreus è un nome particolare di
Dioniso; v. altri
e sempi in Otto, p. 191 ss.
[23] Demostene, De cor., 259. Quando partecipavano
alle feste
dionisiache gli Argivi si impiatsricciavano il viso di
gesso. Si sono
sottolineati i rapporti tra il gesso (titanos) e i
Titani (Titanes), ma
questo complesso mitico-rituale fu occasionato proprio
dalla confusione
tra i due termini (cfr. già Farnell, Cults, V, p.
172).
[24] Cfr. il ‘problema' attribuito ad Aristotele
(Didot, Aristotele,
IV, 331, 15), discusso, dopo Salomon Reinach, da
Moulinier, p. 51. Nel
III secolo, Euforione conosceva una tradizione
analoga; ibid., p. 53.
[25] Jeanmaire, Dionysos, p. 387. V. altri esempi in
Marie Delcourt,
L'Oracle de Delphes, p. 153 ss.
[26] Delcourt, op. cit., pp. 155, 200. Plutarco, dopo
aver parlato
dello squartamento di Osiride e della sua
risurrezione, si rivolge
all'amica Clea, la leader delle Menadi di Delfi: «Che
Osiride sia la
stessa persona di Dioniso, chi potrebbe saperlo meglio
di voi che
dirigete le Tiadi, che siete stata iniziata da vostro
padre e da vostra
madre ai misteri di Osiride?»
[27] Il ditirambo, «girotondo destinato, in occasione
del sacrificio di
una vittima, a produrre l'estasi collettiva con
l'aiuto dei movimenti
ritmici e di acclamazioni e grida rituali, si è potuto
-proprio nel
periodo (VII-VI secolo) in cui nel mondo greco si
sviluppa la grande
lirica corale- evolvere in genere letterario per
l'accresciuta
importanza delle parti cantate dall'exarchon, per
l'alternarsi di brani
lirici su temi più o meno adattati alla circostanza e
alla persona di
Dioniso» (Jeanmaire, op. cit., p. 248 ss.).
Da:
http://www.ilbolerodiravel.org/filosofia/eliade.htm
tratto da
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/mirceaeliade/dioniso.htm
Dioniso e il mondo dionisiaco
I. La nascita di Dioniso
A Zeus la cadmeia Semele generò un figlio illustre,
unitasi a lui in amore, Dioniso ricco di gioia,
lei mortale un figlio immortale, e ora ambedue sono
dèi.
In questi versi di Esiodo (Teogonia, 940-42) sono già
tracciate le
linee essenziali del mito di Semele: dal suo grembo
uscì Dioniso quando
lei morì incenerita dalla folgore di Zeus. Semele è in
origine dea
ctonia dell’Anatolia ed il suo nome è forse da legare
col nome slavo
Zemlja, che significa "terra". L’unione ierogamica
sembra riflettere
uno schema tipico della cosmologia mitica: Semele, la
terra, è
fecondata da Zeus, il fulmine, cui segue tempesta ed
acqua pluviale. Il
mito racconta di amori segreti tra Semele, figlia di
Cadmo e Armonia, e
Zeus. Hera, gelosa, con un’astuzia mortale tenta di
opporsi all’amore
del re degli dèi con la principessa tebana: appare in
sogno alla
giovane nelle vesti della sua nutrice e convince
Semele a chiedere al
re degli dèi, suo amante, di mostrarsi a lei come
appariva alla sua
moglie legittima. Zeus allora venne tra tuoni e lampi
a visitarla, e
Semele restò folgorata. Zeus, però, riuscì a salvare
il
feto di Dioniso dalle fiamme e lo cucì nella sua
coscia fino al
compimento della gestazione. Fatali furono le doglie
di Semele, fatale
il suo tragico parto di Dioniso, che ebbe dunque
gestazione e nascita
maschile: si tratta di un motivo arcano della
mitologia indoeuropea,
che trova un altrettanto misterioso parallelo nella
tradizione indiana
delle Upanishad.
Il dio Soma, equivalente indiano di Dioniso, in quanto
patrono delle
inebrianti bevande fermentate a base di miele, fu
cucito nella coscia
della divinità celeste Indra. Ma questa seconda
nascita di Dioniso può
essere posta anche in relazione simbolica con forme di
adozione: è
attestata una pratica detta couvade, in cui il padre
simulando un parto
maschile, riconosceva come proprio il figlio: in
questo modo si voleva
forse preservare la buona salute del neonato, legato
da indissolubile
rapporto simpatetico col padre. L’usanza appartiene a
popoli
mediterranei, quali corsi, iberi e ciprioti, ed ha
avuto grande
diffusione in varie epoche e fino ai nostri giorni. Ne
abbiamo notizia
anche da Apollonio Rodio (2.1011) che a proposito
degli abitanti di
Amatunte racconta:
Qui, quando le donne partoriscono figli ai mariti,
sono essi, i mariti, che si mettono a letto e che
gemono,
con il capo bendato, e le donne provvedono al cibo
per loro e preparano i bagni rituali del parto.
II. Epiteti cultuali di Dioniso
L’origine e la natura variegata di Dioniso si
manifesta nel gran numero
di epiteti, che si riferiscono alle sue molteplici
forme e
caratteristiche divine: epiteti legati alla sua
vitalità animale e
vegetale, a eventi e invocazioni rituali, a luoghi di
culto, ad aspetti
inerenti al mito, a prerogative e attribuzioni della
sua complessa
figura divina.
In qualità di inventore del vino Dioniso viene
chiamato Ampelos,
"tralcio di vite"; ma in Attica tale epiteto è sempre
sostituito con
Kissòs, "edera", pianta che al tempo stesso dissimula
e simboleggia la
forma della vite; alla stessa sfera rinvia
l’appellativo poetico di
Oinops o Oinopos, attribuito all’edera. Affine a
questo nome è
Perikìonos, proprio dell’area tebana: il suo
significato è Dioniso "che
si avvinghia alla colonna" in forma di edera.
L’appellativo Oinos,
"vino", identifica il dio col prodotto della pianta a
lui per
eccellenza legata, e a Dioniso Oinos veniva
sacrificato un capretto,
forse per offrire carne in cambio di vino e
neutralizzare con la
mescolanza di cibo e bevanda ogni eccesso pericoloso
di ebbrezza.
Ambiguo l’epiteto Orthòs, Dioniso "diritto", forse
riferito al fatto
che in origine il dio era adorato all’origine nella
forma di phallòs
"eretto", simbolo di fecondità; ma l’epiclesi potrebbe
anche essere
interpretata nel senso che gli uomini, avendo
imparato da lui a
mescolare il vino con l’acqua, da quel momento
sarebbero stati in grado
di tenersi "diritti" in piedi.
Al vino si lega anche il furor bacchico e a tale stato
psicologico è da
connettersi l’epiteto Mainòmenos, Dioniso "furibondo".
Ancora al vino,
che "scioglie" e "libera" dagli affanni, si riferisce
Lysios, il Liber
dei romani. Il dio è anche Endendros e Dendrìtes,
ossia lo "spirito
dell’albero". Infine, come Euànthes, Dioniso della
"feconda fioritura",
era invocato dai seguaci del thìasos durante il
periodo delle
scorribande nelle campagne.
Eriphos, Dioniso "capretto", designa l’aspetto ferino
più noto nella
mitologia; l’appellativo riflette il mito giovanile di
Dioniso sbranato
dai Titani, fatto a pezzi e poi messo a bollire. Zeus,
attratto
dall’odore, apparve e col fulmine impedì ai Titani di
consumare il
pasto, sostituendolo con il capro sacrificale. A
questo animale si
riferisce anche il culto di Dioniso Melànaigis, il dio
"con la nera
pelle di capra". Di grande importanza anche gli
epiteti che propongono
l’identità del dio col vitello e col toro: Bougenès
significa Dioniso
"figlio di vacca" e "nobile toro". Gli epiteti
Eriphos, Bougenès e
Taùros dicono anche che Dioniso è la preda a cui si dà
la caccia e
l’animale sacrificale da divorare crudo. Ma il dio è
anche Omàdios e
Omestès, "colui che si ciba di carne cruda", e per lui
viene imbandito
un pasto sacrificale. Anche l’appellativo Isodaìtes,
"spartitore esatto
di carne sacrificale", rimanda al destino del dio
smembrato e al tempo stesso istigatore dello
sparagmòs e
dell’omophagìa, e Anthroporràistes lo designa
addirittura come "colui
che si ciba di carne umana". È probabile che questi
epiteti risalgano
ad un’epoca in cui a Dioniso venivano immolate vittime
umane. Dioniso è
pure Zagreùs, il "grande cacciatore": a Pilo c’era un
sacerdote che
rivestiva la funzione di Dioniso cacciatore di fiere
vive. Nella città
portuale tessalica di Pagase il dio era venerato col
titolo di Pèlekys,
Dioniso "doppia scure": lo strumento era l’arma
sacrificale con la
quale si compiva l’uccisione del dio in forma di
vitello o di toro.
Al mito della sua nascita rinvia l’epiteto cultuale e
poetico
Eiraphiòtes, Dioniso "cucito nella coscia" (vd. I. La
nascita di
Dioniso). Anche l’appellativo Dimètor, "colui che ha
due madri", si
riferisce appunto a questa doppia ‘maternità’ del dio.
La folgorazione
di Semele è ricordata dall’epiteto Pyrìgenos, "nato
dal fuoco" o "dalla
folgore"; e Bròmios, Dioniso "rumoroso", il dio del
"tuono" (bròmos),
rievoca l’evento che accompagnò la sua nascita (così è
invocato spesso
nelle Baccanti). Ai cicli annuali di rinascita si
riferisce l’epiteto
Trieterikòs, il dio "dei due anni alterni": la
trieterìs era appunto un
periodo triennale e al terzo anno iniziavano le
celebrazioni festive
del dio. Al mondo ctonio, oscuro e notturno di
Dioniso, si riferisce
l’epiteto Nuktèlios, che dice il momento in cui si
celebravano le orge,
cioè di notte. Anche Meilìkios, che designa Dioniso
come il dio "dolce
mielato", appartiene alla sfera
ctonia del dio, perché il miele era offerto in
libagione ai
defunti e serviva alla loro imbalsamazione (Persefone,
che è divinità
sotterranea dei morti, è detta Melitòdes, la dea
"mielata"). Ma Dioniso
può manifestarsi anche come divinità luminosa e a
questa sua
prerogativa è forse da collegarsi l’invocazione
rituale di Iakchos, il
dio portatore di fiaccola nei misteri notturni.
Molti tra gli epiteti riguardano i luoghi di culto più
importanti:
Kàdmeios si riferisce al palazzo di Cadmo, dove c’era
la tomba di sua
madre Semele. Nysàios e Krèsios rinviano ai luoghi
cultuali di Nisa e
Creta. Come Limnàios, Dioniso era venerato, all’inizio
dei mesi
invernali, nella palude di Limna, a sud dell’acropoli
di Atene, dove
c’era un tempio; nei suoi pressi scaturivano sorgenti
la cui acqua era
mescolata con vino per evitare eccessi di ebbrezza
dovuti al liquore di
Dioniso: era l’occasione in cui gli Ateniesi
celebravano il nuovo anno
vinario.
Alla natura androgina del dio, che contrasta con la
sua forza
generatrice maschile ma ribadisce il suo essere
ambiguo, appartengono
appellativi quali Gynnìs, "femminella" (Baccanti, v.
335 "straniero
dalle forme di femmina") e Arrenòthelys,
"ermafrodito". Alla sfera
della sessualità allude Enòrches, "colui che è in
possesso dei
testicoli", epiteto con cui era venerato a Samo e a
Lesbo.
Connessi con le immagini e le scorribande dei thìasoi
sono le
invocazioni a Dioniso come Archìbakchos, "colui che
conduce i bàkchoi",
oppure Bakchèus e Dithyrambos (Baccanti, 526)
quest’ultimo impiegato
nelle Antesterie, feste della stagione primaverile, e
spiegato dagli
antichi come o dis thyraze bebekòs, "colui che è
venuto due volte alle
porte della nascita", con chiaro riferimento alla
doppia gestazione del
dio, prima nel ventre di Semele, poi nella coscia di
Zeus. Con
Thrìambos (cfr. il nome latino triumphus) si voleva
ricordare che a lui
per primo fu decretato il "trionfo": fu celebrato così
quando, come dio
vagabondo e guerriero, tornò dalla sua spedizione in
India.
L’appellativo Mitrephòros designa il dio come
"portatore di mitra", una
fascia arrotolata sul capo al modo di un turbante, un
capo di
abbigliamento rituale indossato anche dagli adepti che
manifestavano
così la propria identificazione colla divinità.
Integrato nel
contesto cittadino e ristretto delle eterie
simposiali, il dio
era invocato come Melpòmenos, perché alle bevute in
onore del dio si
mischiava il canto (molpè) e la musica.
III. Elementi dell'abbigliamento rituale:
il tirso, la nebride, la mitra
Ogni culto ha i propri elementi di abbigliamento
rituale: Dioniso e i
suoi seguaci indossano accessori caratteristici quali
il tirso, la
nebride e la mitra.
Thyrsos è parola non greca e di etimologia incerta:
alcuni studiosi
definiscono la parola "di importazione" e ne vedono la
probabile
derivazione dall’ittita tuwarsa, che significa "ceppo
di vigna",
"tralcio". All’origine doveva trattarsi di una canna
lunga qualche
metro, chiamata anche narthe ("nartece"), che
propriamente è una parte
del tirso, benché Euripide nelle Baccanti usi i due
termini come
sinonimi. Quando il culto dionisiaco penetrò in terra
greca, il tirso
fu un semplice ramo di pino; poi fu ricavato anche da
piante
dionisiache per eccellenza, quali la vite e l’edera, e
il fedele lo
decorava con le proprie mani: sulla cima innestava una
pigna, intorno
ad essa arrotolava rami d’edera e bende di stoffa, ed
anche piccoli
sistri e nacchere, atti a produrre suoni estatici di
accompagnamento al
cerimoniale orgiastico. Il tirso è un vero e proprio
totem vegetale,
che si carica della magica e vitalistica forza della
vegetazione per
trasmetterla a chi lo porta. Possiamo anzi
affermare che il tirso
ha tutte le caratteristiche e le prerogative di una
bacchetta magica: è
così dotato delle intrinseche e straordinarie potenze
della natura, che
le Baccanti hanno il potere di far sgorgare dalle
rocce latte, vino e
miele, col solo tocco del tirso (Baccanti, 704ss.); e
non solo può
produrre miracoli benefici, ma anche infondere pazzia.
Il tirso è pure
arma di offesa: ancora le Baccanti di Euripide se ne
servono come picca
di guerra per respingere gli assalti dei pastori
tebani (Baccanti,
732); e nell’esodo della stessa tragedia, il tirso è
usato come una
picca su cui esporre la testa di Penteo. Ma l’uso più
proprio e
consueto di questo strumento riguarda i rituali
orgiastici, dove
serviva come accompagnamento alle frenetiche danze
delle menadi:
l’espressione tecnica thyrson tinassein, "scuotere il
tirso", dice
appunto il suo impiego vorticoso durante le danze.
La nebris era una pelle di animale indossata dai
seguaci di Dioniso
come una tunica. L’animale prediletto da cui si
ricavava questo capo
d’abbigliamento rituale era di solito il cerbiatto, ma
anche la
pantera, il capro o la capra, la lince e la volpe
(bassaris). La
simbologia legata alla nebride è quella di una
animalità ferina e
selvaggia, di una forza bestiale; una veste che
infonde, dunque, il
desiderio di varcare i confini del mondo civilizzato
per immergersi
nella selvaggia naturalità. Il verbo nebrizein ha due
significati:
"indossare la nebride" e "dilaniare il cerbiatto". I
due sensi si
integrano a vicenda, perché la nebris delle Baccanti
veniva certo
ricavata dalla pelle dell’animale fatto a brani
durante le orge in
onore del dio: lo sbranamento e il conseguente pasto
di carne cruda
rinviano ancora ad uno stato pre-civile, ad un mondo
dominato dallo
sparagmòs e dalla omophagìa, fuori dalla civiltà,
della quale sua cifra
profonda è
anche la cottura dei cibi.
La mitra è propriamente una fascia, un nastro per
capelli, arrotolato
sulla testa e intorno alle tempie come un turbante; in
origine è un
copricapo femminile, ma nel culto dionisiaco era
indossato da uomini e
donne, il che ribadisce quel superamento e
annientamento delle barriere
sessuali che caratterizza il culto dionisiaco: un
segno di
consacrazione che indica tutti i ministri delle orge.
IV. La maschera e il doppio
Sul famoso vaso François di Firenze è raffigurata una
processione di
divinità. Le loro figure sono tutte di profilo,
escluso una: quella di
Dioniso. La sua non è una fuggevole sagoma, ma un
volto frontale che
pianta il suo sguardo nero nelle pupille
dell’osservatore, un volto
bloccato in un’espressione innaturale e ambigua,
statica ma allo stesso
tempo in tensione. Quello del vaso François non è un
caso isolato: si è
appurato ormai che solo al volto di Dioniso o alle sue
maschere è
riservato, nell’iconografia vascolare greca, il
privilegio della
frontalità. Dioniso, dunque, non è un dio ‘obliquo’,
come Apollo: il
suo messaggio è diretto al fedele in modo esplicito,
senza compromessi
o ambiguità oracolari, e il fedele lo deve accogliere
come
un’esperienza totalizzante, che investe tutta la sfera
dell’essere.
Ma qual è il messaggio che il dio, tramite la
maschera, trasmette
all’uomo?
Su questo argomento la materia rimane ancora confusa e
sono state
avanzate molte ipotesi, che tuttavia concordano su un
fatto: le
maschere di Dioniso erano venerate come "epifanie" del
dio stesso, e
non come semplici suoi simboli. L’uomo che indossava
una simile
maschera, in un certo senso, indossava il dio, e non
solo in apparenza,
assumendo le sue fantastiche sembianze del volto, ma
anche nella
sostanza, immedesimando il proprio spirito con quello
di Dioniso.
L’adepto che compiva questo camuffamento diventava,
per così dire, un
essere ‘altro’ da se stesso.. In effetti Dioniso è il
"dio-altro", il
"dio-estraneo", il "dio-straniero": non fa parte del
consesso olimpico,
perché forse è venuto da lontano, dal di fuori.
Pausania racconta la
storia di un oggetto ‘estraneo’, una enigmatica
maschera di legno
trovata da alcuni pescatori di Lesbo in fondo al mare,
che subito fu
considerata epifania di Dioniso. Questa immagine che
emerge dal mare,
anch’esso uno spazio ‘altro’, è un enigma da
decifrare, perché in
questo volto c’è appunto qualcosa di xènos (Baccanti,
453), cioè di
"strano" e di "straniero", secondo il doppio, ambiguo,
significato
della parola greca: "straniero", infatti, non designa
il non-greco,
ossia il "barbaro", ma il cittadino di una comunità
vicina. Penteo,
nelle Baccanti di Euripide, si rivolge a Dioniso come
xènos. Chi
indossava la maschera, dunque, diventava "altro".
Ma come mai l’ "alterità" sembra essere l’unico fine a
cui i fedeli
tendevano durante i culti misterici?
Perché "altro", in campo dionisiaco, era sinonimo di
"tutto". Essere
"altro" dall’individuo significava divenire uguale
alla "totalità":
totalità che in questo caso è coincidentia
oppositorum, unione dei
contrari. La maschera stessa, di per sé, contiene una
polarità di
significati opposti: è "presenza", perché considerata
epifania di
Dioniso, ma allo stesso tempo è "assenza", perché ha
le orbite vuote, e
aspetta di essere indossata da qualcuno. E questo
qualcuno diventa
Dioniso, pur rimanendo se stesso, e, anche se UNO,
rispecchia in sé i
MOLTI.
C’è un mito orfico in cui Dioniso ci appare bambino
che, con la faccia
tutta impiastricciata di gesso (una sorta di maschera
bianca), si
guarda allo specchio e non riconosce più la sua stessa
figura,
considerandosi "altro" da sé. Che cosa significa
questo mito?
Esso ci dice che il dio bambino, guardando la sua
faccia bianca in uno
specchio, non vede più se stesso, ma il Tutto. Ed ecco
perché nel
celebre affresco della Villa dei Misteri a Pompei è
raffigurato un
adepto che guarda in una coppa di vino, nella quale è
riflessa
l’enigmatica espressione di una maschera dionisiaca:
in quella coppa
c’è il Tutto.
Il dionisismo, dunque, è la ricerca di una divina
armonia con
l’universo, il tentativo di abolire le differenze fra
animale e uomo e
fra uomo e dio. Tappa forzata, però, e straziante, è
l’annullamento dei
contrari: la maschera costituisce l’arché e il tèlos,
il "principio" e
il "fine", di questo cammino di misteriosa
trasformazione; e lo sguardo
inquietante delle sue orbite vuote apre l’adepto a
prospettive oscure e
luminose, comunque sovrumane.
V. Bestiario dionisiaco
Tra gli animali erano particolarmente sacri a Dionso
il capro, il toro,
la pantera, il leone, il serpente e l’asino.
Il capro è l’animale ‘tragico’ per eccellenza: esiste,
come noto, un
legame sicuro, anche se controverso, fra la tragedia e
il capro, da cui
essa prende il nome. Il termine TRAGWIDIA (tragoidia)
è infatti formato
da TRAGOS (tragos) + WIDH (oide) = "capro + canto", ed
è spiegato in
vari modi:
canto dei TRAGOI, ossia i seguaci di Dioniso
mascherati da capri;
canto per il capro, come premio del vincitore;
canto sul/in onore del capro.
La TRAGWIDIA era il canto religioso con cui, nelle
feste di Dioniso, si
accompagnava il sacrificio di un capro, la vittima
preferita dal dio.
Forse fu la sua ben nota lascivia e sfrenatezza
sessuale a fare del
capro uno dei membri del corteggio dionisiaco; ma
importante poteva
essere anche il fatto che i capri mangiassero con
avidità i tralci
della vite. Il collegamento tra il Dioniso e l’animale
risulta evidente
anche dalle denominazioni cultuali del dio: come
"giovane capro"
Dioniso era invocato a Metaponto. Anche nel mito
spesso il dio si
manifesta in forma di capro: si narrava che Zeus, per
difendere il
fanciullo dalle insidie di Era, lo trasformò in un
capretto; e nella
fuga davanti al tremendo Tifone, Dioniso fuggì in
Egitto, dopo aver
assunto forma caprina.
Il toro fra i popoli antichi fu considerato come il
simbolo della
fecondità e della forza generatrice; proprio per
questo Dioniso ne
assumeva di preferenza l’aspetto quando si presentava
ai suoi fedeli.
Tuttavia, non soltanto la vitalistica pienezza
generatrice fece del
toro una delle manifestazioni del dio, ma anche la sua
furia selvaggia
che lo rende un animale pericoloso. Anche il toro,
dunque, come tutte
le autentiche manifestazioni dionisiache, ha la
duplicità di natura di
chi dona e anche distrugge la vita in preda al furore
bacchico. Fu
appunto il toro furioso che i fedeli avevano in mente,
quando
invocavano Dioniso. Nelle Baccanti il coro invoca il
dio perché appaia
in forma di toro, e così si manifesta a Penteo per
condurlo alla sua
orrenda fine. L’epifania, in questa scena della
tragedia, era forse
indicata dalla maschera indossata dall’attore con le
corna che spuntano
dal capo (v. 921): Dioniso è il "toro munito di
corna". Penteo è
in preda all’allucinazione, "paragonabile -
secondo Dodds - alle
visioni dei satanisti medievali che vedevano il loro
maestro con corna
caprine". Le Mimallones, cioè le Baccanti macedoni,
"portavano corna
sul capo ad imitazione di Dioniso" (Scholia a
Licofrone 1237). Agli
occhi allucinati dello stesso Penteo il dio era già
apparso nel suo
aspetto taurino; il re lo aveva condotto alla greppia
per
imprigionarlo, ma qui aveva trovato un toro (Baccanti,
618). L’episodio
è forse la reminiscenza di un tradizionale rituale
dionisiaco:
l’inseguimento e la cattura del toro sacrificale
divino (Pindaro, Ol.
13.18). Pausania (8.19.2) racconta di una corrida
celebrata in Arcadia
dove un giovane torello veniva staccato dal branco,
catturato dai
giovani a mani nude e, infine, sacrificato a Dioniso.
Con la
metamorfosi taurina del dio è da mettersi in relazione
l’appellativo
"Bromio", epiteto cultuale di Dioniso "Signore delle
grida". Eschilo in
una scena
degli Edoni (fr. 57 Radt) descrive terrificanti
apparizioni che
muggiscono nell’oscurità con orrende voci taurine.
Plutarco (Iside e
Osiride, 35) così descrive i riti delle donne
dell’Elide:
Molti Greci rappresentano Dioniso in forma di toro, e
in Elide in
particolare le donne invocano il dio pregandolo di
venire a loro ‘con
piede taurino’. Gli Argivi poi danno a Dioniso
l’epiteto di ‘figlio di
toro’ e lo chiamano con le trombe perché risorga dalle
acque.
La pantera compare con frequenza nei miti dionisiaci e
la pelle di
pantera fa parte dell’abbigliamento del dio e dei suoi
seguaci. In
Beozia il dio fece impazzire di terrore le Miniadi con
le sue
metamorfosi in toro, leone e, infine, in pantera. Il
carro nuziale su
cui salì dopo le nozze con Arianna era trainato da sei
pantere. A
motivo della sua bellezza e della sua taglia, la
pantera era stata
consacrata a Dioniso. Per qualche tempo la fiera aveva
accettato le
carezze del padrone; poi, eccitata dalla primavera,
era partita per le
montagne. Fu catturata nella Panfilia, dove gli aromi
l’avevano
attratta. Si stabilisce anche un forte legame tra la
pantera e il vino,
liquore dionisiaco per eccellenza: secondo gli
antichi, infatti, le
pantere, sempre assetate per natura, potevano essere
catturate proprio
grazie al vino; bastava spargerne qualche recipiente
in prossimità di
un punto di abbeveramento e le fiere, stimolate
dall’aroma, si
avvicinano,
bevevano finché ce n’era e, approfittando della
loro ubriachezza,
erano prese facilmente.
La figura del leone è presente nel mondo greco a
partire dall’arte
minoica; qui la Grande Madre delle Fiere, la Pòtnia
Theròn, viene
raffigurata sulla cima di un monte scortata da due
leoni. Su una gemma
minoica appare invece un personaggio identificato come
"Signore degli
animali selvatici". La relazione esistente fra lui e i
due leoni che lo
fiancheggiano è chiaramente espressa dal suo gesto:
egli impone le sue
mani sollevate sopra gli animali rampanti, li
addomestica, li attrae in
suo potere e li fa suoi prigionieri.
Il serpente è un altro animale che riveste un ruolo
fondamentale nel
culto di Dioniso. Già nell’arte minoica troviamo la
figura del
serpente: reperti archeologici del Palazzo di Cnosso
rappresentano la
figura femminile della Potnia a seno scoperto, con le
mani protese o
allargate, nell’atto di maneggiare serpenti. In un
passo delle
Dionisiache di Nonno di Panopoli si legge che fu il
serpente a indurre
Dioniso a gustare l’uva. Il serpente è bestia ambigua,
doppia:
sanguinaria e divina; è animale ctonio collegato colla
sfera della
morte; le serpi nascono dal midollo osseo dei morti,
secondo Eliano. Si
ripropone il binomio vita-morte che è segno di
ambiguità, della doppia
natura di Dioniso. Nei riti dionisiaci le Baccanti
mettono a rischio la
propria vita, giocando con la morte, tramite la
manipolazione dei
serpenti (Baccanti, 698). In epoca più tarda il culto
di Dioniso
pretendeva che le Menadi adoperassero serpenti non
velenosi, quale
barbaro
ornamento della loro acconciatura di Baccanti.
Anche l’asino appartiene al contesto dionisiaco, ma
con importanza
forse minore rispetto agli altri animali: nessuno
degli epiteti del dio
lo menziona, né il dio prese mai la sua forma. Il
legame Dioniso-asino
è tuttavia testimoniato da diversi reperti figurativi
della ceramica
vascolare, che fanno di questo animale la cavalcatura
del dio. D’altra
parte, anche l’idea della forza fallica dell’asino
permetteva un facile
rapporto con Dioniso, divinità legata alla fecondità e
alla potenza
generatrice della natura. L’asino poi, come il capro,
è divoratore di
piante predilette da Dioniso, vite e anche fico. Come
sempre, tuttavia,
nel ciclo della rinascita e nel segno dell’ambiguità
dionisiaca, la
vita coincide con la morte e, non a caso, l’asino farà
parte integrante
anche del simbolismo funerario degli antichi.
VI. La vite, l’edera e altri attributi vegetali
Il mondo dionisiaco si riconosce soprattutto dal suo
spirito di
frenesia che si manifesta in particolare nel vino. È
nella vite in
particolare che cresce il delirio dionisiaco e si
comunica a tutti
coloro che ne gustano il succo prodigioso: perciò la
vite è il simbolo
più rappresentativo del dio. Eppure Dioniso non è solo
nella vite.
Accanto alla vite la pianta prediletta da Dioniso è
l’edera. Come
Apollo si adorna di lauro, così Dioniso si adorna di
edera ed è perciò
chiamato kissokòmes; nel demo di Acarne era invocato
come kissòs. Rami
di edera erano avvolti anche attorno al tirso; risulta
perfino da
testimonianze che i suoi devoti si facevano tatuare
sul corpo foglie
d’edera. Narra il mito che l’edera fosse comparsa
subito dopo la
nascita di Dioniso, per riparare l’infante dalle
fiamme che bruciavano
il corpo di sua madre Semele: l’edera avrebbe avvolto
tutto intorno la
reggia di Cadmo attenuando le scosse del terremoto che
accompagnò lo
scoccare della folgore. Dall’edera prendeva nome anche
una fonte presso
Tebe, detta appunto Kissoùsa, dove le Ninfe avrebbero
celebrato la
rituale abluzione del neonato dio, allevato poi sul
monte Elikòn, il
cui nome deriva da èlix, che significa propriamente
"spirale", ma è
anche altro nome della pianta.
Edera e vite manifestano la loro stretta parentela, ma
al tempo stesso
entrano in un rapporto contrastivo denso di
significati: la vite, nella
stagione fredda, giace come morta, finché, col
rinnovarsi del calore
solare, prorompe a nuova vita col suo verde sgargiante
e coi suoi
frutti ardenti; l’edera fiorisce in autunno, quando
nelle vigne si
celebra la vendemmia, e reca i suoi frutti a
primavera; tra la sua
fioritura e fruttificazione intercorre l’epoca
dell’epifania invernale
di Dioniso; e così, in qualche modo, l’edera rende
omaggio al dio delle
inebrianti feste dell’inverno in qualità di ornamento
stagionale. La
vite, invece, ha il massimo bisogno di calore solare e
di radiosa luce.
L’edera era dagli antichi paragonata al serpente per
la loro natura
strisciante: i movimenti con cui la pianta striscia al
suolo o si
attorce agli alberi fanno pensare alle serpi avvolte
intorno alle
chiome e maneggiate dalle Baccanti. Ma si riteneva che
edera e serpenti
appartenessero al dio soprattutto per la natura fredda
e ctonia
attribuita loro: la natura dell’edera, infatti, veniva
opposta a quella
del fuoco, con cui invece sembrava imparentato il
vino. Per questo alla
freschezza dell’edera si attribuiva anche la virtù di
fugare l’ardore
dello stesso vino e si credeva che Dioniso avesse
comandato ai suoi
fedeli d’incoronarsene durante i simposi. L’affinità e
il contrasto tra
vite e edera è radicata nell’essenza stessa del dio
dalla duplice
figura, la cui natura si esprime dalla terra per mezzo
di esse: luce e
oscurità, calore e freddezza, ebbrezza di vita e
soffio di morte.
Il pino (o l’abete), come l’edera, verdeggia anche
d’inverno e figura
nel mito e nel culto come uno degli alberi sacri a
Dioniso. Nelle
selvagge e sfrenate feste notturne il suo legno
fiammeggia nelle
fiaccole e la sua pigna incorona il tirso. Nelle
Baccanti (v. 1061),
Penteo, per assistere ai rituali delle Menadi, sale su
un pino. Non si
può escludere che il pino fosse elemento rituale dello
sparagmòs:
durante il cruento rito la vittima sacrificale poteva
essere legata al
pino prima dello sbranamento. Il pino, inoltre, è
collegato anche alla
vite: nasce anch’esso nei terreni caldi, dove meglio
prospera anche la
vite, e la sua resina serve alla conservazione e a
temperare il gusto
del vino.
Altra pianta sacra a Dioniso era il fico, simbolo
della vita sessuale:
sul suo legno si intagliavano i "falli".
Infine, il mirto, dove sembra che torni a manifestarsi
l’altro aspetto
ctonio della divinità: per desiderio dei signori
dell’Ade, Dioniso
avrebbe lasciato nell’oltretomba il mirto in
sostituzione della madre
Semele, che egli sottrasse al regno dei morti; così
veniva motivata la
credenza che il mirto appartenesse al dio e alle ombre
degli inferi.
VII. Dioniso e i thiasoi femminili
L’antica società greca fu maschilista e patriarcale.
La netta
discriminazione tra uomo e donna ha riflessi in campo
religioso: le
divinità con caratteristiche e occupazioni maschili
(ad es. Apollo,
Efesto, ecc.) attiravano fedeli di sesso maschile; le
donne (a parte i
misteri eleusini) erano ammesse a partecipare solo ai
riti locali in
onore di divinità femminili (Demetra e Kore, Atena,
Artemide, Hera,
ecc.). Le divinità olimpiche erano rappresentate
esclusivamente come
maschio o femmina. Diverso, però, il caso di Dioniso
(in origine non
appartenente al pàntheon), il quale, incarnando le
caratteristiche di
entrambi i sessi, si propone come dio ambiguo. Questa
duplicità di
ordine sessuale funziona a livello di sfera
d’influenza del dio: bere
il vino in onore di Dioniso era soprattutto privilegio
degli uomini (si
pensi al contesto, tutto maschile, dell’eteria
simposiale); il
menadismo rituale, invece, era pratica pressoché
esclusiva delle
donne. La differenza passava in secondo piano
solo in occasione
di festività pubbliche in onore delle epifanie annuali
del dio (ad
esempio durante le Anthesterie), dove si richiedeva la
partecipazione
di tutta la cittadinanza. Quanto poi al topos delle
donne ubriacone e
avvinazzate, bene attestato dalla letteratura, esso
rientra nella
mentalità misogina e maschilista greca.
Quando si parla di ‘Dioniso e le donne’, bisogna
dunque riferirsi
soprattutto alle Menadi e al menadismo, cioè a quelle
donne che
praticavano rituali in preda ad un’estatica follia
(‘menade’ è termine
riconducibile alla radice man-, comune al verbo
maìnomai, che significa
"sono folle, pazzo"). Le Menadi mitiche possono
considerarsi le madri
spirituali di Dioniso bambino. Dioniso fu nutrito e
allevato da Ninfe,
gruppi sororali, che poi seguirono il dio fatto
adulto. Una donna in
particolare si distingue per le sue cure materne: Ino,
dietro la quale
può celarsi la figura della madre Semele, morta nel
parto. Ino aveva
altre due sorelle, Eunoe e Agave, madre di Penteo, da
lei sbranato
durante i riti orgiastici sul Citerone. Esse formavano
un gruppo di tre
donne, le tre Menadi originarie, archetipi dei thiasoi
dionisiaci.
Alla base di ogni racconto c’è sempre un rifiuto del
culto di Dioniso.
Le Menadi sono intente ai loro telai: è proprio questo
strumento, che
definisce in Grecia il ruolo tipicamente femminile, ad
essere attaccato
dal dio, il quale vi avvolge intorno edera e serpi
distruggendolo.
Allora le donne sono strappate ai loro compiti
familiari e abbandonano
la casa del padre. Secondo una versione del mito fu
Hera a togliere
alle figlie di Minia il senno, come punizione per non
aver tributato
onori alla dea; si erano addirittura beffate del
simulacro ligneo di
Hera. La rivolta contro Hera in un accesso di follia
dionisiaca va
letta come rifiuto dello stato matrimoniale: la
trasgressione della
doppia attività, cioè della tessitura e del
matrimonio, implica una
radicale contestazione di quei ruoli che definiscono
la donna greca
all’interno della città: è significativo che le Menadi
fuggano e che
celebrino le loro orge rituali immerse negli spazi
naturali.
Dioniso, nel prologo, dice di aver colpito col suo
delirio le donne di
Tebe, di averle spinte fuori dalle case e trascinate
sul Citerone per
celebrare i suoi riti.
Altri gruppi sono attestati dalla tradizione: in Elide
c’erano le
Sedici ‘donne sacre’ a Dioniso, poi le Thyàdes
delfiche e attiche. Sono
tutte congregazioni che riflettono antiche strutture
di clan,
all’interno dei quali si celebravano cerimonie di
iniziazione femminile
ai thìasoi. Nelle Baccanti (v. 694) si distinguono
infatti tre
categorie femminili, vecchie, giovani, vergini (donne
non maritate),
che forse rispecchiano la suddivisione delle Baccanti
nei thìasoi. Di
solito la distinzione per classe di età era un
elemento applicato in
tutti i rituali, non solo quelli dionisiaci, e le
donne maritate
celebravano il rituale in modo diverso. Le Menadi,
dunque,
rappresentano le immagini della femminilità primigenia
del mondo, ed
esse sono madri e nutrici; il loro senso materno si
esplica, però, ad
uno stato di ferina naturalità, tanto che si manifesta
addirittura
nell’allattamento di cuccioli animali, accostati dalle
seguaci di
Dioniso al
loro seno per nutrirli: è questo un aspetto
dell’orgia
dionisiaca, che riflette il rituale menadico
originario, mitico, così
come l’omofagìa e lo sparagmòs, realmente praticati in
un remoto e
perduto passato.
Ai confini del mondo civile, è infranta ogni norma e
barriera sociale,
ogni regola di vita politica: la donna si ribella ai
doveri imposti
dalla famiglia patriarcale e fonda una comunità
contrapposta a quella
maschile, adottando i simboli del gruppo dominante:
celebrazione di
sacrifici, trasformazione in guerriere, attività di
caccia.
I ruoli s’invertono, ricreando un mondo egualitario:
Dioniso è un dio
demotikòs, cioè un dio del popolo tutto, senza
differenze di sesso o di
classe, e come tale promette ‘libertà’. È diverso da
Apollo, dio
dell’aristocrazia dei ghène e appartenente allo spazio
controllato e
armonizzato dalla civiltà e della cultura: Dioniso
promette di
sciogliere i legami della solidarietà familiare e
induce a ‘comportarsi
da pazzi’.
VIII. Il simposio e il kòmos
Una particolare frenesia deriva dal vino: l’animo
umano è travolto e
l’uomo perde la chiara coscienza di sé immerso nel
fluttuare delle
sensazioni. Esiste, come è noto, un legame cultuale
originario tra
Dioniso ed il vino: durante le feste della sua
epifania il vino
sgorgava miracolosamente e maturavano le viti. Il vino
è il dio stesso
che induce entusiastica ebbrezza, spesso connessa a
sfrenatezza
sessuale, e risveglia gli istinti e gli impulsi della
natura umana.
Euripide, nelle Baccanti (vv. 221ss.) fa riferimento
all’etilismo:
nella scena si allude a grandi crateri, colmi di vino,
intorno ai quali
le Menadi si dispongono in cerchio. Da Pausania
sappiamo che durante i
riti dionisiaci venivano posti nelle vie crateri di
vino, ai quali
tutti potevano attingere. Tra VI e V secolo a.C.
assistiamo alla
progressiva affermazione del dionisismo e l’aspetto
più importante e
ricco di significati nella relazione tra Dioniso e il
vino è costituito
senza dubbio dal contesto simposiale. È in
questo ambiente che
Archiloco intona il bel canto di Dioniso (il
"ditirambo"), quando il
vino gli ha folgorato la mente (fr. 120W). Vino e
canto hanno gli
stessi effetti: placano gli affanni quotidiani. Il
canto ispirato dal
vino è illuminante folgorazione di un istante: il
poeta è folgorato,
come folgorata da Zeus fu Semele e ai suoi occhi si
apre solo la
visione istantanea e individuale del mondo dionisiaco.
Infiammato dal
vino di Dioniso l’uomo greco esprime nel contesto
simposiale i suoi
sentimenti personali, le proprie passioni politiche,
leva il proprio
inno alle gioie della vita, invita a dimenticare gli
affanni della dura
realtà (basti pensare alla lirica di Alceo, Teognide,
Anacreonte). Il
simposio diviene luogo di relazioni sociali, di
un’etica di gruppo che
trova la sua espressione nelle eterie, persone unite
da un unico
sentire, dove compagni (etaìroi), legati dal vincolo
del giuramento,
lottano per gli stessi obiettivi politici. La
carica eversiva del
vino si espande nella lotta delle eterie
aristocratiche contro il
tiranno o la massa volgare del popolo (Alceo e
Teognide), ma allo
stesso tempo si depura, proprio perché integrata nella
sfera della
città, ossia in un contesto civilizzato regolato da
norme rituali
precise, e contrapposto alla ritualità più primitiva
che si manifestava
nelle aree extraurbane delle trietèrides montane a
contatto con la
natura selvaggia. L’ambiente del simposio, nelle sue
varie espressioni,
può essere ripercorso per mezzo di uno straordinario
numero di pitture
riproducenti thìasoi, kòmoi, poeti, musici e etere,
ecc., ma la
descrizione più precisa dei preparativi e dello
svolgimento di un
simposio ci è offerta da un’elegia di Senofane (fr. B
1 DK):
Il pavimento lustra: mani, tazze pulite.
Uno ci pone in capo le ghirlande,
un altro tende fiale di balsamo. Il cratere
troneggia, pieno di serenità.
Altro vino promette di non tradirci mai:
è in serbo nei boccali, sa di fiore.
L’incenso spira tutt’intorno una fragranza
di chiesa, è chiara, fresca e dolce l’acqua.
Ha ciascuno il suo pane biondo; la salda mensa
è carica di cacio e miele denso.
C’è nel mezzo l’altare coperto di fiori.
La casa è avvolta di festa e di musica:
Lodare Dio con puri detti e con discorsi
devoti è, per i buoni, il primo debito.
Dopo avere libato e formulato la preghiera
di poter fare - che più conta - il bene,
non è una colpa il bere, purché a casa si ritorni
senza sostegni, se l’età consente.
E s’esalti chi svela nel vino intenti nobili,
memore di virtù, ricco d'impegno. (...)
Bello aver cura sempre degli dei.
[trad. di F.M. Pontani]
L’atmosfera apparente è quella di una festa, ma il
bere in comune è
soprattutto un atto sacrale, il momento supremo nel
quale s’inscrivono
altri atti rituali del simposio: libagione votiva,
incoronamento con
ghirlande di edera e di mirto, inni al dio
accompagnati dall’aulòs,
dalla cetra e dalla lira. Il tutto avviene secondo un
cerimoniale
regolato da norme ‘liturgiche’, un rito dove la
presenza del dio è
assicurata dal liquore che egli stesso ha rivelato
all’uomo greco: qui,
nel simposio, il vino diventa dio, ed è chiamato
Bacco, Bromio,
Dioniso.
Poi dal chiuso del simposio i partecipanti, in preda
all’ebbrezza,
usciranno fuori, a cielo aperto, per celebrare col
kòmos la divinità.
Il kòmos era un corteo festoso e disordinato, in cui i
simposiasti
mascherati sfilavano, come in processione; pur
rimanendo nell’ambito
privato dato che coinvolgeva i simposiasti, il corteo
aveva un valore
rituale e per il chiassoso disordine e la gioia
manifestata con canti
in onore del dio, si avvicinava alle manifestazioni
proprie degli
sfrenati thìasoi dionisiaci.
IX. Strumenti musicali e danza estatica
Nella iconografia vascolare e statuaria il dio compare
accompagnato da
strumenti a fiato e a percussione, tipici del suo
corteggio: flauti,
nacchere, timpani.
Il flauto era considerato lo strumento atto a
scatenare stati
d’eccitazione psicologica. Il timpano, strumento per
eccellenza dei
riti orgiastici, era una sorta di piccolo tamburo,
costituito da un
cerchio di legno, sul quale era distesa una pelle di
toro, uno degli
animali simbolo del dio: si può dire che contiene lo
spirito vivente
del dio e che la sua costruzione è sottoposta ad una
serie di norme
rituali. La leggenda narra che il timpano fu inventato
dai Coribanti e
fu, poi, usato da Dioniso. I timpani erano suonati
dalle Baccanti che
li innalzavano sopra il capo, come si vede talvolta
nelle
rappresentazioni vascolari. Essi, tuttavia, erano
sentiti come estranei
alla tradizione musicale greca, perché provenivano
dalle regioni
asiatiche.
Data la diffusione di timpani e di tamburi nei culti
estatici, si è
pensato ad un effetto neuro-fisiologico del tam-tam
sull’udito umano:
una sorta di droga sonora capace di indurre la trance
automaticamente.
I rapporti tra suono del flauto e follia furono
oggetto di studio anche
nel campo della medicina. Secondo Platone, le melodie
del flauto "sono
capaci da sole, per la loro potenza divina, di
trasportare le anime al
delirio" (Simposio, 215c); secondo Aristotele il
flauto possiede il
potere di generare "entusiasmo" (Politica, 1342b).
Il flauto e il timpano non erano però gli unici
strumenti adatti a
scatenare deliri estatici: Dioniso si presenta anche
con strumenti a
corda, come barbito, cetra, e lira; a Creta lira e
flauto erano
ugualmente impiegati per la danza estatica dei Cureti.
Studi recenti
hanno permesso di capire la funzione della musica nei
rituali
caratterizzati da fenomeni di trance e di passione,
come quelli
dionisiaci. In questo senso sono state fatte notare le
affinità della
guarigione catartica con l’estasi e con fenomeni di
risanamento
dall’isterismo. Si sono mostrati, poi, i punti di
contatto tra le
espressioni rituali del culto dionisiaco del mondo
greco ed affini
manifestazioni di culto di alcuni paesi islamici
dell’Africa. Si è,
infine, messa in relazione la trance anche all’uso di
altri strumenti a
corde, come la lira.
L’iconografia vascolare dà ampio spazio all’uso di
strumenti a corde
nel rituale dionisaco e la lira è ritratta tra le mani
del dio stesso o
in quelle di Satiri e Sileni che fanno parte del suo
corteggio. È
soprattutto tra il V e il IV secolo lira ed arpa si
uniscono, come
strumento dionisiaco, al barbito, già abituale nelle
feste e nei
simposi, e da questo momento, nei thiasoi, le Menadi e
i Satiri
alternano il pizzicato dell’arpa e l’accompagnamento
della lira alla
frenesia ritmica dei cembali e dei timpani.
Alla luce di queste brevi considerazioni, si può
concludere che quando
Dioniso appare come dio ‘lontano dalla polis’, il dio
‘Straniero’,
scatenante angoscia e follia nella trance collettiva,
è prevalentemente
ritratto tra flauti, cembali e timpani; mentre quando
si manifesta come
dio ‘integrato nella polis’, inserito cioè nello
scenario cittadino,
come protettore delle istituzioni sociali e familiari,
destinatario di
gare e performances festive, è accolto, soprattutto
dalla fine del V
secolo in poi, con lira e vari tipi di arpa.
X. Il ditirambo di Dioniso e l'origine della tragedia
Sull’origine e sull’etimologia del termine dithyrambos
restano ancora
vari dubbi. Di sicuro si può dire soltanto che
ditirambo è parola di
origine anellenica, assorbita dagli indoeuropei solo
dopo il loro
arrivo nella penisola ellenica. Secondo alcuni
dithyrambos sarebbe un
antico nome cultuale di Dioniso. Il secondo elemento
del termine
(-ambos) figura in altre parole simili, anch’esse
legate al culto
dionisiaco, quali thriambos e iambos: ne deduciamo che
esso significa
canto (M. Unterstainer).
In un’iscrizione frigia, figura la parola dithrera,
col significato di
sepolcro, e ciò lascia supporre che il ditirambo sia
stato,
all’origine, un canto epitombale. L’ipotesi è
supportata dal confronto
fra Iliade XXIV 721 e un passo della Poetica di
Aristotele (IV 1449a9):
i threnon exarchoi, "coloro che intonano il lamento",
di cui parla
Omero, altri non sarebbero infatti che gli exarchontes
ton dithyrambon,
"coloro che intonano il ditirambo", ritenuti da
Aristotele i precursori
della tragedia, nata, forse, da canti cultuali in
onore di Dioniso
prima e di eroi poi. Il legame fra canto epitombale e
ditirambo sembra
dunque completo: ai suoi inizi il ditirambo, come la
maggior parte
della lirica corale, appartiene alla sfera del culto;
è un canto per
Dioniso ed è seguito da un gruppo di persone guidate
da un exarchon, le
quali accompagnano in processione l’animale
sacrificale e si dispongono
intorno all’altare del sacrificio. La più antica
menzione del termine ditirambo è in un famoso
frammento di
Archiloco (120 W.), dove il poeta afferma con
orgoglio:
io so intonare il bel canto di Dioniso Signore,
il ditirambo, quando nell'animo sono folgorato dal
vino.
Il frammento apre una nuova prospettiva: Archiloco
concepisce il suo
rapporto col canto in modo nuovo e diverso rispetto
all’aedo omerico;
egli lo definisce "bello", è orgoglioso di saperne
creare il testo e la
musica (molpè) e non si dichiara più ispirato dalle
Muse, ma dal vino
di Dioniso, che ispira lui solo e non chiunque ne
beva. Questa decisa
affermazione della propria personalità, comune ai
poeti contemporanei
ad Archiloco, e a quelli delle generazioni successive,
aiuta a spiegare
l’evoluzione dei canti cultuali (l’inno, il prosodio,
il peana, il
partenio, i nomoi), ma non è sufficiente a chiarire
l’evoluzione del
ditirambo da canto cultuale in onore di Dioniso a
rappresentazione
musicale, in quanto essa ha cause molteplici di natura
sociale,
politica, religiosa e culturale.
All’inizio del VI sec. a.C., dopo la colonizzazione,
l’economia basata
sui commerci tende a soppiantare l’antico sistema
sociale, fondato su
un’economia agraria; sul piano socio-politico viene
scosso e frantumato
il predominio dell’aristocrazia con la conseguente
nascita delle
tirannidi. Quando i tiranni cercano di mediare realtà
opposte e
conflittuali, il culto di Dioniso si rivela il più
adatto a
interpretare le esigenze religiose di tutta la
comunità proprio perché,
svincolato dai gruppi ristretti dei ghéne, si propone
come religione
universale. Su questo sfondo si colloca proprio la
riforma del
ditirambo attuata a Corinto da Arione al tempo del
tiranno Periandro.
La fonte diretta è Erodoto: "primo fra gli uomini dei
quali abbiamo
conoscenza, Arione compose un ditirambo, gli diede il
nome e lo fece
rappresentare a Corinto". Per la prima volta il
ditirambo diviene
spettacolo eseguito durante la festa per Dioniso, come
avverrà ad Atene
nel V secolo. Ma il ditirambo-spettacolo che si
svolge a Corinto
è diverso dal ditirambo-spettacolo di Atene? È lecito
supporre di sì,
stando alle affermazioni di due eruditi ellenistici,
Antipatro ed
Eufronio, secondo i quali il ditirambo non fu creato
da Arione a
Corinto, ma da Laso ad Atene. La questione, comunque,
è molto
controversa e lontana ancora ogni ipotesi definitiva:
allo stato
attuale si può solo affermare che Arione, a Corinto,
imprime un nuovo
corso al ditirambo, ma la sua storia, legata alla
tragedia come noi
l'intendiamo, sembra iniziare con Laso di Ermione, che
opera alla corte
dei Pisistratidi.
L’organizzazione dell’agone tragico sotto Pisistrato
(535 a.. C. circa)
rientra in una politica culturale e religiosa, che
interpreta a pieno i
forti mutamenti della realtà socio-economica, e
contribuisce
enormemente a fare della polis attica il centro della
cultura greca. La
costituzione di Clistene (508 a.C.) sostituisce dieci
tribù alle
quattro tradizionali e stabilisce che alle Grandi
Dionisie ogni tribù
presenti un coro ditirambico di 50 uomini o ragazzi.
Le spese sono
sostenute da un corego che, oltre a scegliere il
poeta, provvede
all’istituzione e al mantenimento del coro. Le gare
ditirambiche aprono
le Grandi Dionisie di Elafebolione (marzo-aprile) e
sono le più
entusiasmanti, perché a vincere non è solo il poeta,
ma l’intera tribù.
Il carattere agonale favorisce e accelera l’evoluzione
del genere e la
musica appare subito come un campo quasi inesplorato:
l’aulòs per la
sua struttura permette effetti polifonici estranei
all’eptacordo e ribelli alla disciplina ritmica
del testo. Il
ditirambo, che per strumento ha appunto l’aulòs, porta
ad Atene la
ricca esperienza dei popoli asiani, i registri tonali
dell’aulòs, al
tempo stesso dolci e cupi, gravi e acuti fanno entrare
davvero lo
spettatore in contatto con Dioniso.
da http://volta.valdelsa.net/thiasos/baccanti/saggi.htm
Per saperne di più
Su Dioniso, il dionisismo e le Baccanti di Euripide
esiste una
bibliografia molto vasta, per non dire sterminata;
qui, per comodità,
ci limitiamo a indicazioni bibliografiche selezionate
su scritti più o
meno recenti e facilmente reperibili:
> E.R. DODDS, Euripides, Bacchae, Oxford-New York,
1960.
> H. JEANMAIRE, Dioniso. Religione e cultura in
Grecia, Torino, 1972.
> G.A. PRIVITERA, Il ditirambo da canto cultuale a
spettacolo
musicale, in "Cultura e scuola", 43, 1972,pp.56-66.
> E.R. DODDS, I Greci e l'irrazionale, Firenze,
1978 (in
particolare, il saggio sul 'menadismo').
> AAVV, Poesia e simposio nella Grecia antica, a c.
di M. Vetta,
Bari-Roma, 1983.
> M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del
tragico, Milano,
1984.
> M. DETIENNE, Dioniso a cielo aperto, Roma-Bari,
1987.
> A. HENRICHS, Changing Dionysiac Identities, in
Jewish and
Christian Self-Definition, III, Self-Definition in the
Graeco-Roman
World, edd. B.F. Meyer e E.P. Sanders, London 1982,
pp.137-160 (testo)
e 213-236 (note).
> AAVV, Dionysos. Mito e Mistero, Bologna, 1989.
> G. GUIDORIZZI, Euripide, Le Baccanti, Venezia,
1989.
> F. LISSARAGUE, L'immaginario del simposio greco,
Bari-Roma, 1989.
> J. KOTT, Mangiare Dio, Milano, 1990.
> W.F. OTTO, Dioniso. Mito e culto, Genova 1990.
> EURIPIDE, Alcesti, Medea, Baccanti, a c. di Ma.
Vitali, Milano,
1991.
> K.KERÉNYI, Dioniso. Archetipo della vita
indistruttibile, Milano,
1992.
> G. IERANÒ, Euripide, Baccanti, Milano, 1999.
|