Il ritorno del Fuoco Sacro

home


Fuoco Sacro



fuoco  IL RITORNO DEL FUOCO SACRO IN OCCIDENTE - ALBA LONGA  fuoco
 
 Passeggiata archeologica sul Monte Cavo, lungo la via dei trionfi che conduce i vincitori romani al santuario di Giove Laziale.
 
 di Alessandro Giuli
 
 
 In queste due pagine si conclude la prima parte della fabula dedicata alla storia delle origini laziali di Roma. Siamo sul Monte Cavo, dove i Latini e i Troiani guidati dal sangue di Enea (Iulo) si fusero per dare vita alla città di Alba Longa. Dopo il primo incontro nel giorno del Dio Terminus (23 febbraio), dopo un secondo incontro nel giorno della Dea Flora (28 aprile), il giovane Lucio torna a trovare il proprio maestro Pomponio e tra i due si riannoda il dialogo su Giove, su Cesare, sui trionfi dell’Urbe.
 
 
 MMDCCLXI ab Vrbe Condita
 Ante diem undecimum Kalendas Iulias
 SOL IN CANCRO
 
 
 Nella ricorrenza del solstizio d’estate, compiute le offerte alla Fortuna di ogni giorno, Lucio Giulio Glanico fa ritorno nel viridarium del proprio maestro Giulio Pomponio Leto. L’Hora sesta sta declinando e la luce solare riflette il profilo del tempio d’Apollo sui cespugli di mirto. Sovrastato da un fascio di violette riunite in mazzo con spighe e papaveri, un serto di edera circonda l’altare sul quale sta fumigando il nero dello storace. Spirali azzurrine salgono verso nordest, dove abita la Dea che presiede al mese di Iunius. Giunone Regina.
 
 Giulio Pomponio Leto – Caro Lucio, non conosco ancora l’argomento della nostra conversazione, però non posso dubitare che sia ottimo a sapersi, dato che la tua cortesia fa sì che io non ne rimanga estraneo.
 
 Lucio Giulio Glanico – Sì, è bene che tu lo sappia. Oggi, solstizio d’estate, mentre il Sole Invitto entra nella costellazione del Cancro, nel momento del suo massimo splendore diurno, sarebbe per me un giorno di festa mutilo se non potessi raccontarti come le circostanze della vita quotidiana mi abbiano indotto a recarmi sul Monte Cavo, sede di Giove Laziare e centro della nostra gente latina.
 
 Pomponio – Fra di noi, Lucio, abbiamo già sfiorato alcune questioni nient’affatto marginali. Abbiamo discorso dell’approdo tirrenico del nostro Padre Indigete Enea nel Castro di Inuo, nella selva Laurentina del fragoroso Pan; e poi di Enea abbiamo ripercorso la fondazione della sacra Lavinio, dove vigilano gli Dei Penati Dardanidi. Ma la tua passione per le ricerche è a me troppo nota perché tu possa negarla per modestia. Inoltre non mi sfugge che la vetta del Monte Cavo, lì dove un giorno si aggrappava la nobile città di Alba Longa, fondata da Iulo, sangue di Enea, e dissolta da Tullo Ostilio, terzo re dell’Urbe, è il luogo in cui ogni romano raccoglie il consenso del Dio supremo al momento di assumere le proprie responsabilità. Ti prego quindi di esporre tutte le considerazioni che tu ritenga di farmi conoscere. Non di più, non meno del giusto. Ma prima, giacché tu stesso hai evocato l’antichissimo Sole Indigete e il Padre Giove Laziare, consentimi di levare la destra per onorarli con questo incenso e lascia che al posto nostro parli il canto dei loro sacerdoti, gli scutati Salii dall’elmo crestato:
 
 “VERSVS IANVLI –
 Cantatelo, il Padre degli Dei;
 plecate il Dio degli Dei.
 Oh Sole, sorgi al mondo!
 Alla porta del cielo, o tu che apri!
 Sei il gentile portiere;
 sei il buon Ianes,
 sei il benefico generatore
 di più potenti signori.
 
 VERSVS IOVII –
 Quanto tuoni, o signore della luce,
 davanti a te tremano
 quanti Dei nel cielo
 t’udirono tuonare”.
 Ita est.
 
 Lucio – Tu stesso che m’inviti a parlare, Pomponio, hai insegnato a me che il rosso di giugno segna l’ingresso nel ciclo di Apollo e libera la natura dalla propria terrestrità. Come il solstizio d’inverno apre al Sole Invitto la porta dell’Aratore saturnio e lo arma di un vomere potentissimo per uccidere l’inverno, così il solstizio d’estate lo incorona lungo la porta del Mietitore celebrandone il trionfo. Quale migliore occasione di questa, dunque, per raggiungere le pendici del Monte Albano e percorrere la via sacra lungo la quale si svolgeva l’ovazione dei nostri padri vincitori fino alla congiunzione con il Giove Latino? Ma vedo, Pomponio, che i tuoi occhi seguono la scia dell’incenso e mi domando se le mie parole non risultino vane alle tue orecchie.
 
 Pomponio – Al contrario, Lucio, mentre ti ascolto scorgo nel fumo dell’offerta un segno di approvazione. Prima di proseguire, ricorda che l’ultima grande vittoria dei maggiori nostri avvenne, non per caso, nella così detta battaglia del solstizio d’estate. Quando, guidate dall’Eroe con l’aratro, nel 1918 dell’èra volgare, le legioni d’Italia strapparono dal suolo patrio il barbaro ancestrale.
 
 Lucio – Ancora una volta mi fai dono di una gemma che l’animo mio conteneva, nel ricordo, senza la fiamma necessaria a illuminarlo. Ma devo dirti, Pomponio: certamente di questo bagliore non si curano coloro che sarebbero chiamati dallo Stato a proteggere la via sacra dei Latini, altrimenti nessuno avrebbe osato svellerne con il trattore il lastricato romano; né alcuno avrebbe avuto il coraggio di sfidare il Dio Silvano recidendo in modo così brutale i germogli primaverili dalle piante sottoposte al taglio di stagione. E chi in effetti, se non un empio, potrebbe riposare alla sera dopo aver sradicato la mammella di un albero sacro a Giove? In ogni modo la via trionfale è più forte del tempo e della mano moderna. L’ho percorsa per intero, Pomponio, grazie alla gentilezza di un ex guardiano che mi ha aperto la strada nel tratto iniziale, dove termina il grigio dell’asfalto serpeggiante sulla via dei laghi e comincia il percorso dei Cesari.
 
 Pomponio – Non dubito che la Dea Giustizia saprà ripristinare l’ordine delle cose. Ma è proprio intorno all’idea di Ordine, Lucio, che forse dirigerà più avanti il nostro parlare. Raccontami di chi tu hai incontrato lungo la via, prima di toccare la vetta.
 
 Lucio – Ho incontrato una forza primigenia racchiusa in un simbolo scolpito per due volte lungo la via sacra. Perché due sono i falli in rilievo sul basolato, come insegne di potere regale. Ma nell’ultimo tratto, quando la strada piega da Borea verso Lucifero, ho anche osservato alcuni poligoni di basalto ancora infissi ai lati con sopra incise le lettere N, V e C. Gli archeologi non trovano spiegazioni concordanti al riguardo.
 
 Pomponio – Mi hai già detto tutto e non siamo ancora giunti a metà del nostro tragitto, Lucio. Ma prosegui.
 
 Lucio – Arrivato in prossimità della vetta, ho constatato con orrore un altro sfregio inflitto al Re dei monti nostri. Una selva meccanica di antenne prolifera come una malattia dove un tempo era il santuario di Giove Laziare. La selva di metallo è appena interrotta dai resti cadenti di una costruzione oblunga meno recente, come una prigione scura. Devo ammettere, Pomponio, che il clima di quel luogo è ben diverso dalla solenne verticalità promanata lungo la via dalla quale si ammirano i nostri laghi vulcanici. Al punto che quella sommità era avvolta da un pietoso mantello di nebbia mista a pioggia di certo inviato dalla Dea Giunone per nasconderne la vista offensiva.
 
 Pomponio – Dici il vero, nulla è più sgradito al Re degli Dei come il danno procurato alla Via Numinis (ecco una prima spiegazione delle lettere V e N incise nel basalto) e al Consul Victor che la percorre impugnando la folgore serpentina a forma di N (ecco una seconda traccia) come una proiezione umana del potere giovio. Quanto alla sommità, è bene tu sappia questo: quando l’ateismo travolse gli avi nostri, sul Monte Albano si abbatté una Furia titanica che nel corso degli anni neppure un ripensamento del Camerlengo galileo sarebbe riuscito a contenere. Ti basti notare che nel secolo Diciannovesimo dell’èra volgare egli dovette indirizzare una lettera al convento stanziato sul santuario giovio – ché di questo stiamo parlando – per impedirne lo scempio brutale. Ma anche quella lettera venne ignorata e le vestigia nostre finirono distrutte o depredate. Non l’essenza, quella è soltanto costretta.
 Ma qual è, Lucio, l’essenza del Monte Albano?
 
 Lucio – Questo so, che nel suo nome è testimoniato il biancore della scrofa gravida sacrificata dal Padre Enea nel luogo in cui avrebbe fondato Lavinium, dopo lo sbarco dei Teucri nel Lazio. Nei trenta porcellini sono individuabili le trenta stirpi latine federate intorno alla città di Ascanio, divenuto ormai Iulo, cioè capostipite della Gens Iulia e progenitore di un altro Enea detto Silvio, cioè Ideo, signore del Monte Ida. Alba Longa sta dunque per Bianca Lunga, poiché l’Urbe arcana si avviluppava con numerosi abitati alle pendici del colle. Una comunità di sangue latino legava le tribù che dai vari pagi si recavano sul monte a celebrare feste comuni, chiamate Feriae Latinae, giurandosi fedeltà reciproca davanti allo scettro di Giove Laziare. In età regia Tullo Ostilio avvicendò al predominio albano la signoria di Roma.
 
 Pomponio – Ma il rito rimase sempre identico a se stesso, Lucio, è come se la natura del capostipite Latino, il suocero di Enea, abbia continuato a irradiarsi nel Lazio attraverso il sacrificio del toro bianco. Giacché questo accade, nelle nostre cerimonie: mentre i cittadini offrono sugli altari incensi ed erbe sacre, focacce di grano e altre primizie di Cerere, olio e vino, i sacerdoti albani col capo velato conducono un bovino adulto dalle corna coronate di nastri purpurei e dorati. Libato il succo della vite, l’officiante biancovestito fa aspergere l’animale con farina di farro mista a sale e acqua di sorgente. Per immolarlo. Poi percorre il dorso del bove dalla testa alla coda con un coltello consacrato. Quindi, tracciate su di esso le cifre e i sigilli del rito, ne ordina il sacrificio liberandone la potenza vitale verso l’alto. Il profumo delle sue interiora arse sul fuoco completa il banchetto divino. Nelle dimensioni e nel profilo del suo fegato è scritto l’auspicio del Nume; al banchetto dei mortali andrà il resto rettamente diviso per tribù.
 Ma ora, Lucio, prosegui.
 
 Lucio – Proseguirò, Pomponio, con una domanda. Non è forse vero, come ci insegnano Livio e Dionisio, che gli Albani sono gente di Lavinio mescolata a Teucri, Arcadi e ottimi Pelasgi? Vale a dire che sono il frutto dell’incontro tra la famiglia degli Aborigeni riparata sui monti per sfuggire alle acque, dopo aver abitato le caverne per proteggersi dal fuoco, e i loro discendenti ritornati sulle spiagge laziali dopo essere fuggiti dall’Italia per via di uno o più cataclismi?
 
 Pomponio – Mi chiedi molto e troppo poco al tempo stesso, Lucio. Ma non sfuggirò alla tua domanda come quegli avi che in tempi remoti, obbligati dal Fato, dovettero lasciare la Patria e si dispersero portando con sé i semi della civiltà nostra in Egitto e nell’Ellade. Perciò ti dirò questo: Alba è, sì, Bianca, ma è anche voce ermetica e sta per Alta. Come nel III secolo dell’èra volgare il geografo Solino disse riguardo ai monti di Creta a noi famigliari. Come già sapevano i primi abitatori Liguri e Sicani. Ma già il più vecchio Strabone, iniziato a Eleusi, aveva riconosciuto nella sommità della catena montuosa detta Giulia un Albius Mons, una cima elevata da cui discende il nome delle Alpi. I populi Albenses sono i custodi primigeni della sacertà di Giove Laziare, infatti nella voce Populus devi leggere “comunità in armi”.
 Ma fa’ attenzione, Lucio, in Alba è anche la radice di Alpanu, la Dea Vendetta che gli Etruschi di Veio evocarono invano contro la sorella Vittoria dei Romani nel tentativo di far tracimare su di loro le acque del Lago albano. Ti sto parlando di due Dee alate che presiedono a un mistero. Per comprenderlo, bisognerà riflettere insieme su una frase oracolare scritta dallo jerofante Giustiniano Lebano nel Diciannovesimo secolo dell’èra volgare.
 Questa: “Coelum, id est – Cavum”. “Cielo, cioè Cavo”.
 
 Lucio – Ti ascolto.
 
 Pomponio – Non ti sarà sfuggito, Lucio, che finora abbiamo chiamato tanto Albano quanto Cavo il medesimo monte. Non certo per indifferenza, ma quasi a sottolineare l’equivalenza dei due aggettivi. Ora Lebano ci suggerisce di andare oltre, di superare perfino la classica etimologia del nome “cielo”, dimora dei Numi immortali, da “celare”, nel senso di nascondere quel che a occhio profano non è dato neppure guardare. Mi stai seguendo, Lucio?
 
 Lucio – Ti seguo.
 
 Pomponio – Bene. E cosa c’è di più nascosto all’occhio indegno se non ciò che si occulta nelle cavità montuose, nei recessi più alti, nelle latebre?
 
 Lucio – Mi stai forse suggerendo di non costringere il mio sguardo nel rito pubblico celebrato dai Latini, per indagare invece un aspetto più occulto riservato ai soli iniziati?
 
 Pomponio – Guai ad avere fretta, Lucio, quando sarà giunto il momento propizio tutto ti apparirà nel proprio chiarore. Ma è da te che deve arrivare lo slancio, tua deve essere la forza attiva che ti liberi dalla percezione comune delle cose. Qui io posso limitarmi a suggerirti di tenere a mente che il sacerdozio di Giove Laziare era affidato agli Albenses, di rango apparentemente superiore a tutti; e ai meno noti Cabenses. Fa’ attenzione, Lucio, e non ti sfuggirà che i Cabenses provengono da Cabum, l’oppidum più arcaico situato sul Monte Albano e dal quale questo prende il nome originario di Cavo. Dionisio e Plinio, inoltre, ci dicono che da questa Urbe misteriosa i Romani hanno derivato i propri sacra, i Penati. Ricorderai, Lucio, che sempre secondo Dionisio i Penati nostri, gli Dei patrii, avevano le fattezze ermetiche del caduceo, la verga di Mercurio percorsa ai lati dalle due serpi. Né avrai dimenticato, Lucio, che gli Aborigeni italici guidati da Dardano, il capostipite dei Troiani, portarono con sé a Samo-Tracia i Grandi Dei velati e istituirono un culto nel quale i Numi erano chiamati Cabiri. Uno di questi, centrale nel passaggio dai Piccoli ai Grandi misteri, era detto Cadmilos, da cui Camillo, venerato sotto forma di Phallus eretto. Per gli Elleni, Mercurio itifallico.
 
 Lucio – Mi stai forse dicendo, Pomponio, che nell’Urbe latina di Cabum è racchiuso il collegamento sottile tra i misteri cabirici di Samo-Tracia e la tradizione albana fiorita a Roma?
 
 Pomponio – Alba si specchia nella profondità di Cabum come gli Albenses non sussistono senza Cabenses. Bianca e alta è la manifestazione, cava la dimora. Un giorno gli studiosi s’interrogheranno forse sulla contrazione delle parole Cab(irei)um e Cab(ir)enses. Sicché, avendo noi cominciato la nostra discussione citando la costellazione del Cancro, ed essendo giunti ora ad adombrare il mistero protetto dalle latebre, ci sarà propizia quest’altra citazione di Lebano: “Come trafora il Cancro i vasti seni/ entro la terra madida. Al vetusto/ Sì li nostri Avi feausi i Cel sereni./ Che trivellanza drento il sasso adusto/ Tanto pe’ lor Cubili; che per riporci/ Le Masserizie, e de’ Penati il Busto”.
 Ma cosa c’è, Lucio, nelle cavità dei Monti Albani?
 
 Lucio – Fuoco vulcanico.
 
 Pomponio – Magma. Saprai, Lucio, che il santuario di Iuppiter Latiaris, Giove Laziare, è direttamente collegato a due colli romani. Sul Quirinale è il Latiar, al tempo stesso luogo e nome del rito che seguiva e completava le Feriae Latine albane nell’Urbe. Sul Campidoglio è la dimora di Giove Ottimo Massimo e di quel Ve(d)iovis che abbiamo incontrato a Castrum Inui, il dio della folgore giovanile e sotterranea. Dunque il Dio custodito dagli Albenses è simboleggiato dall’apoteosi del re Latino e richiama a sé il Nume Quirino, come figura del Marte tranquillo (ma sempre armato) con la quale s’identifica il Fondatore Romolo dopo il suo smembramento e la sua ascesa oltre il cielo sublunare. Ma dove si svolge, Lucio, l’apoteosi di Romolo, il figlio della vestale albana Rea Silvia?
 
 Lucio – Nel Comizio del Foro romano, dove sorge il santuario del Dio Vulcano.
 
 Pomponio – Dici bene. Dunque stiamo scoprendo un legame tra Romolo/Quirino e Vulcano, il Nume che forgia le saette di Giove Ottimo Massimo. E non è forse attraverso un fallo di fuoco che Marte/Quirino concepisce i Gemelli di Roma con la vestale Silvia?
 
 Lucio – E’ così.
 
 Pomponio – Dunque Vulcano si manifesta come genio fallico del focolare, come fecondatore impersonale, ma pure come Nume metallurgico di Giove. Ricorderai, Lucio, che Vulcano viene celebrato a Roma nel ventitreesimo giorno di agosto, Volcanalia, non per caso assieme a Hora Quirini, l’energia di Quirino. Viene celebrato con un sacrificio di piccoli pesci offerti sul fuoco, pisciculi pro animis humanis, in luogo e a beneficio delle anime umane. Fa’ attenzione, Lucio, perché Festo ci dice che anche a Giove Laziare viene fatta un’offerta simile, un’offerta di monete non coniate pro piscibus, cioè per le anime umane o in luogo di esse. Rammenterai, Lucio, che qualcosa di simile avviene anche nei riguardi di Ve(d)iovis venerato tra l’Arce e il Campidoglio come divinità giovanile protettrice del mondo famigliare e gentilizio. E per questo, ma solo qui, rappresentato privo di fulmini.
 
 Lucio – Come un Giove imberbe. Rammento, Pomponio, che secondo Gellio a Ve(d)iovis veniva sacrificata una capra ritu humano, cioè con un rito sostitutivo dell’offerta umana.
 
 Pomponio – Molto bene. Grazie alle offerte da loro ricevute, abbiamo dunque potuto assimilare Giove Laziare come signore dei fulmini, Vulcano come genio fallico e Ve(d)iovis come Iuppiter Iuvenis. Ma con quale forma, con quale gerarchia?
 
 Lucio – Questo, invero, l’ignoro.
 
 Pomponio – Devi sapere, Lucio, che la terra da noi calpestata ogni giorno non è altro se non l’energia del Vulcano Albano rappresa in tufo. E’ magma, è pura forza ignea sprigionata dalle bocche vulcaniche di Albano e Nemi, dove oggi regnano le Ninfe dell’acqua, e di altri luoghi ora invisibili. Quel fuoco incontenibile è stato infine domato e messo in forma da un principio più forte ancora che l’ha portato a maturazione. Ma tu fatichi a seguirmi, Lucio, come se il contenuto del mio discorso ti bruci quanto lava non raffreddata.
 
 Lucio – Ammetto, Pomponio, che la dimensione delle tue parole adesso eccede le mie capacità immaginative.
 
 Pomponio – Capisco, Lucio. Allora osserva questa mia moneta e forse comprenderai. E’ un denario di età repubblicana coniato dal mio avo Lucio Pomponio Molo, e non per caso porta inciso il secondo re Numa Pompilio, ché da suo figlio Pompo noi Pomponii discendiamo. Lo raffigura in atto di compiere un sacrificio particolare. Ora guarda bene la moneta, Lucio, dopo aver rimosso ogni barriera della mente. Concentrati Lucio. Concentrati. Concentrati.
 Numa è il signore della legge stabilita attraverso il patto col Nume supremo. E’ colui che porta a compimento la compilazione dei riti, è colui che dà ordine e stabilità al reale sottraendolo alla sua potenza informe. Davanti a lui è l’altare circolare, simbolo dei Grandi Dei. Nella sua mano porta un lituus, il bastone ricurvo degli auguri nel quale è compreso il mistero del cosmo. Ascolta, Lucio: sulla sommità del lituo è il nucleo igneo centrale che rotea su se stesso come un fuso, da questo movimento a spirale si genera la condensazione del fuoco e il suo progressivo allontanamento verticale verso il basso. Così, da Sol, nasce Tellus, la Terra nostra. Così, dal vulcano laziale, rinasce Roma. Ma perché questo sia sempre possibile, è necessaria la potenza del rito numano, di colui che ha stabilito il patto con Giove e lo rinnova. Lo rinnova con il sacrificio ritu humano, sulla moneta simboleggiato dall’ariete, affinché il caos non torni a impadronirsi del fuoco. Comprendi, ora, Lucio?
 
 Lucio – Comprendo, sì, ma con un’evidenza che non è raccontabile.
 
 Pomponio – Non fermarti, Lucio. Sopra tutti, i discendenti della Gens Iulia si sono fatti tramiti del mistero primordiale. Loro, fondatori di Alba con Iulo e poi signori della vicina Bovillae; loro Albani Longani Bouillani hanno custodito il culto gentilizio di Ve(d)iovis. Sopra un’ara della loro famiglia consacrata secondo la legge rituale albana è scritto: VEDIOVEI PATREI GENTEILES IVLIEI. E cioè: ‘Al Padre Ve(d)iovis i Gentili Iulii’ dedicarono quest’altare. Pochi sanno che, nell’anno 88 avanti l’èra volgare, un anonimo magistrato della Gens Iulia coniò una moneta nella quale i moderni hanno voluto vedere un Cupido alato mentre cerca di rompere un fulmine sul proprio ginocchio sinistro. Non è esattamente così, Lucio, è molto di più. Quello è il Genio della stirpe e sta piegando la saetta alla propria volontà d’imperio. Molti secoli dopo, come per una occulta corrispondenza sottile, il nostro archeologo Giacomo Boni avrebbe identificato perfettamente il significato di quella immagine, se pure poteva non conoscerla. Egli alla fine del diciannovesimo secolo dell’èra volgare, mentre progettava la romana Villa Blanc (oggi incredibilmente abbandonata a se stessa), dopo aver issato una statua dello Scuotiterra Nettuno volle decorare il fregio di coronamento della villa con tre figure in rilievo. La prima di queste è il Genio della moneta repubblicana: “Genietto dell’elettricità, vestito color ambra, che piega il fulmine”. Ecco il senso dell’immagine: pura volontà ordinatrice che piega a sé l’elemento igneo scaricato dal fulmine vulcanico. Magma pietrificato. E Mag-ma, ripetiamolo Lucio, viene da Mag. Radice che dà vita a mag-ia; mag-istrato; mag-ister. La volontà d’imperio è atto magico esemplare che si esercita sul disordine. Il magistrato è colui che detiene il potere ordinatore, Mag, e lo governa secondo il costume dei maggiori. Il maestro è colui che, padrone del secreto, lo trasmette a chi ne sia divenuto degno.
 
 Lucio – Mi domando, Pomponio, se non sia possibile incarnare questa altissima verità nell’esempio storico, ciò che i nostri storici antichi si premuravano sempre di fare per non restare prigionieri dell’astrattezza.
 Pomponio – Dici bene, giovane Lucio. Ma prima tieni a mente che esiste una figura nella quale l’imperio, il suo esercizio e la sua trasmissione sono compresenti: l’eroe vittorioso, il Cesare. Saprai che proprio Caio Giulio Cesare, degno discendente dei suoi avi magistrati monetari Lucio Giulio Cesare e Lucio Giulio Bursio, volle sempre coniare l’effigie della Divina Venere Genitrice, Madre Celeste della famiglia. E prima ancora che un tempio fosse a lei dedicato a Roma, Cesare aveva già fatto scolpire l’immagine di Enea con suo padre Anchise e il Palladio troiano nella mano destra. Ma Cesare eccelle sopra tutto come figlio di Venere Vincitrice, come colui che trionfa. All’apice del suo splendore, egli indossa il manto purpureo e gli alti calzari giovii dei re di Alba. E chi, se non Iuppiter Latiaris, fu invocato dal Divo Iulius a Farsalo, nel momento dello scontro finale contro Gneo Pompeo? Perciò egli, toccata la vetta dell’Imperium, il ventiquattresimo giorno del gennaio 44 avanti l’èra volgare, poté entrare nell’Urbe vestito come Giove Laziare dopo aver celebrato un’ovazione trionfale sul Monte Cavo. Diretta epifania del Nume igneo, Pontefice massimo dopo una breve incarnazione da flamen dialis, il sacerdote di Giove Ottimo Massimo, Cesare giungerà a marmorizzare se stesso in vita nel tempio di Quirino. E come Romolo/Quirino, come già Latino/Giove Laziare, accetterà lo smembramento rituale praticato dai suoi empi assassini nella Curia. Il figlio Ottaviano Augusto sarà suo testimone, vindice e continuatore. E del resto, Lucio, non era stato forse l’albano Giulio Proculo ad assistere all’apoteosi di Romolo?
 
 Lucio – E’ così.
 
 Pomponio – E ancora, Lucio, fa’ attenzione: quando il nostro vate Publio Virgilio Marone definisce Ottaviano “gloriosa discendenza di Giove”, nella quarta egloga delle Bucoliche, egli sta proiettando su Augusto la natura dell’avo Ascanio. Questi diventerà Iulo una volta adulto e il suo nome non significa altro che Iouis filius. Figlio cioè di Iu-piter, in quanto Iolum/Iu-lum, cioè “piccolo Giove”. Ovvero Zeus Kouros, il Giove adolescente che abita sui Montes Idaeii come il Monte Cavo; lì dove appunto Iulo ha fondato Alba Longa.
 Ma ora, Lucio, è il momento di vedere Cesare sulla Via Triumphalis.
 
 Lucio – La mia non è quasi più curiosità, Pomponio. Sto convibrando con le immagini da te evocate.
 
 Pomponio – Raffiguriamocelo, Cesare, come se stesse contemporaneamente trionfando a Roma e sul Monte Cavo. Dopo essersi ritualmente purificato con acqua e zolfo dalle larve che si nutrono del sangue versato in battaglia, Cesare indossa la toga purpurea, l’ornatus Iouis Optimi Maximi, ha il volto cosparso di minio e sul capo la corona di lauro. Nella mano destra impugna uno scettro di oro e avorio sormontato da un’aquila. Il Duce percorre la Sacra Via fino alle pendici del colle, seguito dai tesori di guerra e circondato da flautisti e littori. Poi sale per il clivio capitolino o lungo il tratto albano riservato al Consul Victor. Raggiunge il sacello del Nume Supremo, depone l’alloro sulla sua testa scolpita e il manto purpureo sulle sue bianche spalle. Infine gli consegna lo scettro, asse del mondo e pegno di auctoritas. In quel momento Giove Ottimo Massimo guarda Cesare ed è come se si stesse specchiando.
 Ma ora, Lucio, voglio che tu rifletta su un particolare che ho appena citato e che non conosci appieno, e su un dettaglio apparentemente accessorio che tu conosci ma che io non ho menzionato.
 
 Lucio – Hai descritto in poche parole lo scettro, come l’asse del mondo. Ma invero non saprei dirti cosa non hai illustrato di quel che conosco al riguardo.
 
 Pomponio – Per ora fermiamoci, Lucio, con lo scettro nelle mani del Dio. Ricorderai che non molti anni fa è stato ritrovato a Roma l’involto contenente lo scettro e le insegne dell’imperatore nostro Massenzio. Ti rammenterò cosa hai detto su questo scettro nella nostra ultima conversazione:
 “Ho potuto ammirare a Roma gli scettri del nostro imperatore Massenzio ritrovati da Clementina Panella: se è vero che lo scettro imperiale è il segno visibile della potenza folgorale giovia, le due sfere in vetro verde che chiudevano in alto e in basso l’asta dello scettro di Massenzio non sono forse la figurazione cristallizzata della rotazione destrogira attraverso la quale l’immanifestato si sprigiona, e di quella sinistrogira mediante la quale il manifestato viene ricompreso nell’unità dal Dio Sovrano del cui lignaggio partecipa l’imperatore? E non sono forse, Castrum Inui e Lavinium, come i due globi imperiali apposti su un immaginario scettro disceso quale emanazione di Giove sulla terra laziale attraverso il Vulcano albano?”.
 Ora ci siamo, Lucio. Ma non è tutto. Come insegna Virgilio, l’uso dello scettro e dei fasci deriva dal Nume Picus, avo del re Latino. Il re è colui che lo impugna come fosse il bastone del messaggero. Proprio come la verga del Mercurio Solare di cui abbiamo detto prima. Ambasciatore del potere luminoso supremo, chi porta lo scettro detiene l’Imperium disceso da Giove e lo irradia intorno a sé. In origine esso era una pura lancia di bronzo con l’anima di legno, forza arcaica condensata come il fuoco/Mag. Non diversa è la natura della triplice folgore giovia, Lucio, attributo regale destinato al Re dei Numi. Ma un uomo degno può divenire un’anima scettrata e impugnare la folgore d’oro e avorio, con l’aquila del Dio posata sul vertice con le ali spiegate. E’ il segno del comando, quando sta nelle mani di un imperatore. E’ il diritto di Roma all’Imperium, quando avanza insieme con lo stendardo del soldato aquilifero. E’ la forza ordinatrice attiva adombrata in un’altra frase irrinunciabile di Virgilio: “Iuppiter hac stat”. Giove sta dalla nostra parte. E credi sia tutto, Lucio?
 
 Lucio – No di certo.
 
 Pomponio – Gli scettri dell’imperatore Massenzio, morto in battaglia mentre cercava di arrestare l’avanzata degli usurpatori, sono stati riportati alla luce mondana nel 2005 dell’èra volgare, precisamente tre anni addietro: con il Sole Invitto appena entrato nella costellazione del Cancro. Inoltre è giusto tu sappia che, nelle stesse ore dell’anno 203 avanti l’èra volgare, Publio Cornelio Scipione vinceva sul traditore Siface in Africa e si avviava così a umiliare il cartaginese Annibale nella pianura di Zama. E’ forse un caso che nella lingua nostra lo scettro trionfale si chiami anche Scipio?
 
 Lucio – Il caso non esiste, Pomponio.
 
 Pomponio – I segni celesti sì. E chi sappia comprenderli e dirigerli “stabilisce un rapporto di maschio a femmina”, come insegna lo jerofante conosciuto come Abraxa.
 
 Lucio – Da quest’ultima frase credo di aver capito, Pomponio, a cosa ti riferivi con l’allusione a quel che conosco ma che tu hai omesso di citare nel discorso sul trionfo. L’elemento fallico che accompagnava il Cesare durante il rito trionfale.
 
 Pomponio – Ottimo Lucio, è così. Ma vai avanti.
 
 Lucio – Gli annalisti insegnano che ai trionfatori era necessario sfilare lungo la Sacra Via con un amuleto a forma di fallo. Gli studiosi lo interpretano come un gesto scaramantico, tuttavia credo che sia solo in parte vero. Certo, la frase secondo la quale “gli Dei sanno essere gelosi” ha un fondamento: nessun uomo pio oserebbe elevarsi senza poterlo al rango dei Numi. E proprio nel momento del trionfo è giusto e pio riconoscere la superiorità divina che ha propiziato la vittoria. Tremende e sublimi forze si avvicinano al Cesare ed egli deve saperle controllare.
 
 Pomponio – Dici bene, Lucio. Prova a immaginare il rito trionfale che si conclude con il vincitore innalzato al di sopra degli scudi, che sono poi l’immagine della volta celeste. Prova a immaginare la potenza necessaria per salire oltre la volta stellata sulla scia della Dea Vittoria. Ma il segreto di quel fallo che accompagna il vincitore, e che tu hai ammirato sotto forma d’incisione sul basolato della Sacra Via Albana, è molto più vasto di quanto si creda.
 
 Lucio – Per quanto mi è lecito sapere, ti ascolto Pomponio.
 
 Pomponio – Per quanto mi è lecito dire, ti dirò. Intanto sappi che Phallus è uguale a ence-phalus, lì dove la radice Phal è anagramma di Alf(a). La prima lettera che i Pitagorici definivano “principio di tutte le cose”. Perciò il fallo è anzitutto la colonna vertebrale che dall’osso sacrum sale fino alla sede cranica. In ogni Tesquum è la congiunzione dell’energia che viene dal basso e di quella procedente dall’alto. Raffigurazione dell’intelligenza maschile celeste, il fallo è anche l’architetto dell’universo, potenza assiale e generativa nota ai nostri progenitori Pelasgi, ancora una volta, come Cadmilos itifallico. Potenza scolpita nella via albana e sulle mura di Alatri, a Pompei e in molti altri luoghi santi. E’ di una generazione celeste che ti sto parlando, prima ancora che di un atto sessuale pure innegabile e pio. Quando gli avi nostri celebravano le Phallophorìe, uomini coronati da edera e fiori, assieme a donne semivestite recanti sul capo la cista mistica con dentro il fallo divino, stavano propiziando il più poderoso rito di attrazione universale mai conosciuto. In quella circostanza la potenza spermatica del cosmo, come maschio attivo, illuminava la Luna e, discendendo ancora, fecondava la terra/materia trattenendola dalla fuga nel disordine. Un ermetista seicentesco che ti ho fatto conoscere, Cesare della Riviera, ha scritto a proposito:
 “Il celeste Sole, adunque, Anima del mondo, manda fuori, come scrive Plotino, quasi fiato, e verbo, lo spirito suo, cioè il celeste vivifico Mercurio, natura, e seme universale; il quale avanti ch’egli all’università delle cose di qua giù dia la forma, la vita, e la permanenza, è ricevuto, come afferma Tolomeo nell’Almagesto, dalla Luna, che perciò è detta ricevitrice de i celesti influssi. & essendo proprio del maschio, come più degno, d’operare, e d’influire, e della femmina di patire, e di ricevere, per questa cagione dissero, l’atto di tal ricevimento essere il congiungimento e la copula d’essi Sole, e Luna. La Luna poscia il conceputo seme partorisce nel mondo della generatione, influendo, & imprimendo quello nella materia, cioè nella terra del celeste parto, fatta, come dice Hermete, diligente nutrice”.
 Ora ti sarà più chiaro, Lucio, cosa sono i falli albani, perché i Cesari vogliono con sé il fallo durante il trionfo, e perché in talune occasioni i nostri maggiori chiamassero i Sacra romani con la parola Phalladium.
 
 Lucio – Ora, sì, è chiaro.
 
 Pomponio – Nota Lucio, che il Sole cerca già l’abbraccio di Nettuno. E’ giunto il momento di separarci. Ma prima, mio giovane allievo, valuta se non ci troviamo a un punto di svolta nelle nostre conversazioni. Considera questo: dopo aver preso avvio dal Castrum Inui, dove sbarcò il Pio Enea, abbiamo seguito una linea verticale che ci ha condotti a Lavinium, e da qui in diagonale abbiamo sfiorato Lanuvio per salire poi sul Monte Cavo attraverso la Via Triumphalis. Non credi che siamo pronti per fare ingresso nell’Urbe, Lucio?
 
 Lucio –Lo credo, Pomponio.
 
 Pomponio – Quanto prima. Ma adesso lasciamoci con un’immagine di potenza che a questo punto ci accomuna. L’immagine del tragitto che abbiamo finora percorso dal Tirreno alle porte di Roma, proiettata sulla terra dell’Eneide e sulla volta degli Dei stellati, ricalca la corruscante e invincibile folgore di Giove Ottimo Massimo. E’ questa una nostra prima Victoria, domattina onorerai la Dea nel tuo culto domestico. Fallo meditando queste altre parole che Abraxa le dedica:
 “Divenendo potere di iniziazione attiva (solare), ogni vittoria crea un ente, che dal destino e dal corpo dell’uomo mortale, da cui si trasse, è ormai disgiunto. Forza che si regge in sé, senza bisogno di materia, in lei sta virtualmente il principio di una influenza efficace e di una tradizione. Non ‘santificante’ è tale ‘influenza’ – ma, appunto, trionfale. Riti, che agiscono secondo le leggi tradizionali della simpatia, possono attrarla. L’azione sacrificale, può darle un corpo momentaneo, in cui si manifesti e si moltiplichi. Il culto istituzionale ne fa una ‘presenza’ latente ed occulta dietro una razza, che come ‘fortuna’, energia o inspirazione può aggiungersi alle forze umane della stirpe cui appartiene, ogni qualvolta si produca uno stato atto ad aprire un contatto. Così, la celebrazione del Cesare morto, a Roma si confondeva con quella della sua Vittoria, e nel Cesare si celebrò un ‘perpetuo vincitore’. Sono le forme della ‘tradizione dei guerrieri’, che è effettiva, come quella della sapienza occulta. Conosci anch’essa, penetrane il rito, tanto più invisibile, per quanto più manifesto. Potrai allora giungere allo spirito delle iniziazioni cavalleresche medievali. Potrai giungere a Roma”. Con ciò ti saluto Lucio, Vale.
 
 Lucio – Vale.
  fuoco2
 
 
 "Se un uomo non è disposto ad affrontare qualche rischio per le sue opinioni, o le sue opinioni non valgono niente o non vale niente lui" Ezra Pound


Bak

Next