EBE (scultura del Canova-1816-1817)
Alfonso Piscitelli
PERCHE' NON POSSIAMO NON DIRCI PAGANI
Noi europei non abbiamo alcun bisogno di tornare al paganesimo: non lo
abbiamo mai abbandonato nel profondo dell'anima. La struttura psichica
dei "gentili" è naturalmente pagana, sarebbe una grave
perversione se cessasse di essere tale. Il cristianesimo diffondendosi
nelle quattro aree dell'Europa antica (la greca, la romana, la celtica,
la germanica) ha annacquato la sua originaria radice monoteistica. Il
cattolicesimo mediterraneo era nella realtà un politeismo lunare
incentrato sul culto di tre grandi Dei distinti: Dio Padre (Deus Pater=
Zeus), Dio Figlio (generalmente descritto con tratti dionisiaci) e una
grande Dea Madre (la Madonna = la Signora). Il cristianesimo europeo ha
trasgredito il divieto ebraico di venerare le immagini (un divieto
ancora oggi rigorosamente osservato dagli islamici). Da questa
trasgressione nasce la grande arte cristiana. A partire dal
romanticismo, i poeti germanici hanno cancellato la maledizione biblica
che gravava sulla Natura. La psicologia contemporanea ha riscoperto gli
Dei sotto forma di archetipi psicologici. L'attitudine moderna allo
sport, il diffondersi di palestre hanno recuperato sia pur in forma
materializzata l'aspirazione classica al corpo sano.
Sbagliano pertanto coloro che vogliono incatenare l'anima dell'Europa
ad un destino abramitico. La nostra anima nel profondo non ha mai
smesso di dirsi pagana; basta solo ascoltarla con attenzione per
capirlo. Il "nuovo paganesimo" non è affatto un concetto
stravagante o qualcosa di intellettuale costruito a tavolino; è
semplicemente un atto di auto-consapevolezza: una presa di coscienza
della nostra natura e di ciò che è estraneo (e dannoso)
ad essa.
E' vero che il cristianesimo è stato grecizzato nella sua
teologia, romanizzato nella sua struttura gerarchica, celtizzato nelle
sue sfumature esoteriche (il Graal), germanizzato nelle sue attitudini
crociate e cavalleresche; ma è anche vero che sotto tutti questi
vestimenti europei il cristianesimo rimane una forma messianica di
giudaismo. Tutti i cristiani venerano come divinità il
rabbì Jeshua, della tribù di Giuda. Il rabbì
Jeshua si proclamò messia, esattamente come avrebbe fatto
Sabbatai Zevi 1600 anni dopo. Ogni secolo dal popolo ebraico sorgono
messia, regolarmente avversati dal clero regolare: la tensione tra
sacerdoti e messia, tra sacerdoti e profeti ("Ahi Israele che
perseguiti i tuoi profeti!") è una costante della storia
israelitica. Il rabbi Jeshua si scelse dei collaboratori: tutti ebrei.
Shimon conosciuto sotto il nome di Pietro, Saul conosciuto sotto il
nome di Paolo. E' grazie a questi infaticabili collaboratori che
cinquanta generazioni di giovani europei hanno imparato a riconoscere
in Israele il "popolo eletto", a sentirsi figli di Abramo, di Isacco e
di Giacobbe; a venerare il "leone di Giuda" (il rabbino Jeshua). Non
v'è cosa più illogica di un "antisemita cattolico".
Perché il cattolicesimo, più in generale il
cristianesimo, è il giudaismo messianico divulgato ai popoli.
Cosa leggono i cristiani come libro sacro? La Bibbia, ovvero la Torah
più altri scritti giudaici. Nella Bibbia la collettività
dei cristiani è orgogliosamente definita come "l'Israele di
Dio". La Bibbia si conclude con una esecrazione di Roma "la Grande
Meretrice" e con la profezia dell'avvento del paradiso: la "Gerusalemme
celeste"! Quanti patologici antisemiti vedono la mano ebraica su ogni
male del mondo e poi con assoluta indifferenza professano il
cristianesimo, ovvero la versione messianica del giudaismo.
Al cospetto di Hitler un papa molto caro ai tradizionalisti (Pio XII)
ebbe l'orgoglio di dire: "Noi siamo spiritualmente semiti". C'è
molto coraggio in questo orgoglio espresso a quei tempi. Si può
ammirare quel coraggio; e tuttavia anche noi Europei dobbiamo avere
coraggio ed esprimere l'orgoglio della nostra "gentilezza". Guardate
sulla testa dei vescovi ai quali i cristiani baciano le mani: cosa
portano? Che cos'è quel curioso dischetto? Ovvio, è la
kippah ebraica: con ciò i successori degli apostoli si
qualificano come rabbini.
E del resto tutti i fedeli ogni Domenica ripetono in coro
Alleluia(hve), esclamazione ebraica che suona: sia glorificato Jahve.
Arriviamo così al nodo di quella fissazione patologica che
è l'antisemitismo (ovvero la credenza maniacale che dietro ogni
male del mondo vi siano gli ebrei): l'antisemitismo è
espressione della lacerazione dell'anima europea, che da una parte
accetta il cristianesimo e lo stravolge secondo le proprie tendenze,
dall'altra parte avverte che in fondo al cristianesimo vi è
qualcosa di irriducibile e di inassimilabile: la radice semita.
Vi sono cose che non si possono imporre. Tu non puoi imporre al rabbino
capo di venerare la Dea Afrodite, non puoi cambiare nome a Gerusalemme
(come fecero i Flavi che la trasformarono in Helia Capitolina!). Allo
stesso modo non si può pretendere che un Europeo d.o.c. si
semitizzi. Per porre fine alla triste lacerazione dell'anima europea e
per combattere la patologia dell'antisemitismo noi proponiamo uno
schietto "non semitismo": vale a dire il riconoscimento del fatto che
allo spirito europeo non si addice una religione di origine
giudaico-messianica esattamente come non si addice al rabbino capo di
Gerusalemme ricercare le radici della propria fede in Omero, nel
concetto romano del Pantheon, nel Libro Egizio dei Morti.
La verità è che il cristianesimo dei nostri tempi
da un lato sta riscoprendo la sua autentica radice ebraica e si sta
liberando di ogni sovrastruttura greco-romana, dall'altro sta spostando
il suo baricentro fuori dall'Europa. In Europa non si fanno più
preti. E senza preti chiaramente una religione non può
sopravvivere. Non a caso le Chiese stanno patrocinando il progetto di
spostare in Europa milioni e milioni di africani, amerindi, asiatici.
Per avere un prete in più in seminario, ma anche per modificare
lo psichismo della civiltà europea con l'afflusso di popoli
più docili alle carezze dei monsignori.
Contemporaneamente altri popoli dalla brulicante demografia si spostano
verso Nord e per esplicita ammissione dei loro imam si propongono di
sottomettere l'Europa ad Allah grazie al ventre delle loro donne. Di
fronte a questo movimento di popoli è naturale, per un ovvio
principio di azione e reazione, che si ingeneri un movimento di
ripaganizzazione dei popoli europei. Ciò che era inconscio deve
ritornare ad essere cosciente. La grande cultura europea ci aiuta in
questa riscoperta: non fu solo il Rinascimento a riscoprire gli
antichi, anche i Monaci della Schola Palatina di Carlo Magno non appena
riscoprirono i testi classici se ne innamorarono; compiendo così
due peccati in uno: 1) si innamorarono, 2). di qualcosa di non
cristiano. Il senso di fedeltà al mos maiorum ancor più
della mera cultura erudita ci induce a spolverare il nostro atavico
paganesimo. Si sa, il rabbino Joshua era una persona amabile ma
sicuramente peccava di equilibrio. Ai suoi fedeli disse: "fatevi
eunuchi (=castrati!) per entrare nel regno dei cieli"! Disse: "se il
tuo occhio ti dà scandalo, taglialo via. E' meglio essere orbi
che bruciare nel fuoco dell'inferno". Queste massime così
illuminate difficilmente potrebbero avere una effettiva applicazione
oggi. Fuori che da una ristretta cerchia di fanatici neppure nei secoli
precedenti sono state effettivamente adottate. Nelle buone famiglie
europee per duemila anni si sono educati i bambini con una saggia
miscela di stoicismo e di epicureismo. Lo stoicismo: la convinzione che
bisogna affrontare con virilità, con dignità i momenti
difficili che ogni vita inevitabilmente comporta. L'epicureismo: la
convinzione che anche la vita più seria debba essere condita e
addolcita da una giusta dose di piacere. I riti pagani si sono
interrotti in Europa, ma lo spirito pagano sotto molti aspetti è
continuato. Ininterrottamente.
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Anima naturaliter pagana :::
:::: Trovare un cielo sulla terra ::::
L'uomo moderno cerca di fondare la propria ricchezza su quanto il mondo
gli dispensa fra alti e bassi. Superficialità, senza dubbio, e
pertanto criticabile, ma quanto preferibile alla falsa
profondità dell'apparente comprensione globale fornita da una
credenza zoppicante. Giacché essere Pagano oggi è, a mio
avviso, voler superare sia il dualismo delle religioni monoteiste
rivelate - che chiamerò per comodità religioni abramiche
(Giudaismo, Cristianesimo Islam) - sia il nichilismo, tipico di una
modernità singolarmente distruttiva. Non intendo in nessun modo
rappresentare la totalità della corrente neo-pagana
contemporanea. Del resto, sono profondamente convinto che esistano
tanti approcci al paganesimo quanti sono i Pagani. E questo non
è forse nella natura delle cose, dal momento che il tratto
caratteristico dei differenti Paganesimi, vecchi o nuovi, europei o no,
consiste precisamente in quest'esaltazione dell'infinita
pluralità del reale?
Ma vediamo che cos'è in realtà quello che viene chiamato Paganesimo.
Il termine si può prestare a confusioni e malintesi, tanto
più che esso è stato forgiato dai suoi avversari. Sono
infatti i Cristiani che, nel corso del III e del IV secolo, hanno fatto
della parola latina paganus (contadino) una sorta d'insulto.
I Pagani erano allora presentati come degli zoticoni, degli antiquati
che rifiutavano - sfrontati! - di convertirsi alla vera fede, quella
del Cristo. Ancora ai nostri giorni, il termine "Pagano" è
talvolta inteso come sinonimo di "barbaro", di "rozzo", e addirittura,
presso certuni, di "ateo". Ora, esso non è niente di tutto
questo.
Il Paganesimo che io difendo è agli antipodi della discutibile
esaltazione di chissà quale barbarie o quale culto della forza
bruta. Lo scrittore ortodosso russo Vladimir Volkoff parla, in uno dei
suoi romanzi, di "nietzcheismo da boy-scout vizioso", espressione che
mi sembra assai calzante. Se i Pagani hanno sempre reso omaggi alle
forze presenti nell'universo, non si tratta per noi Politeisti,
né di un culto della violenza e tantomeno d'idolatria.
Quanto alla presunta rozzezza dei Pagani, mi limiterò a
ricordare che da millenni questi ultimi hanno sviluppato metafisiche
estremamente raffinate (si pensi ai Presocratici greci alle Upanishad
dell'India, alle scuole platoniche, pitagoriche o ermetiche...) e
mitologie sontuose di cui l'antropologia strutturale e il comparatismo
di un Dumézil hanno mostrato l'infinita ricchezza. Infine,
l'ateismo - non dimentichiamolo - è pressoché sconosciuto
nelle società tradizionali. Non parlo qui dell'ateismo di massa,
che prolifera nelle nostre società postcristiane. Per questo
rimando al libro di Marcel Gauchet sul Cristianesimo come agente del
disincanto del mondo.
Se dovessi definire rapidamente il Paganesimo in quanto coerente
visione del mondo, direi che esso è fedeltà alla stirpe -
considerata nel quadro di una memoria millenari (quella che ci
"re-ligat" [ religio, religione, è appunto l'atto del religare,
collegare ], che ci unisce ai nostri antenati lontani) - radicamento in
un territorio (termine da prendere lato sensu) e apertura all'infinito.
Potrei ugualmente parlare di partecipazione attiva al mondo,
d'equilibrio ricercato fra microcosmo e macro cosmo.
È religione naturale, la religione della natura e dei suoi
cicli, la più antica del mondo perché "nata" - ammesso e
non concesso che il mondo sia mai nato - con lui. Lungi dall'essere una
fissazione di qualche tipo un po' bislacco o una nostalgia da letterati
fermi a qualche mitica Età dell'Oro, oso affermare che il
Paganesimo sta per diventare di nuovo la prima religione del mondo.
Infatti, se si considerano gli Induisti, gli Scintoisti, i Taoisti, gli
animisti e gli adepti - sempre più numerosi - dei culti
precristiani d'Europa o delle Americhe (si pensi alla spettacolare
rifioritura dello sciamanesimo nell'ex-URSS), dei culti preislamici
(Zoroastriani delle regioni turcofone) e persino pregiudaici (penso in
particolare ad un gruppo di Ebrei americani che desidera ritornare ai
culti politeisti degli Ebrei), si rischia davvero di arrivare a un
totale approssimativo di millecinquecento milioni di persone. Il che ne
fa, o ne farà presto, il primo gruppo religioso del pianeta. Due
potenze nucleari, l'India e la Cina, sono politeiste - una sotto
orpelli modernisti, l'altra sotto orpelli marxisti. In piena Pechino si
costruiscono templi taoisti, e l'Induismo è divenuto offensivo,
dal momento che missioni indù s'installano ai quattro angoli del
mondo.
Per concludere questa breve illustrazione della reale importanza e del
carattere non aneddotico del Paganesimo moderno, ricordiamo che il
Paganesimo è religione ufficiale dell'Islanda dal 1973, che esso
è in parte riconosciuto in Gran Bretagna (ospedali, prigioni
eccetera) e negli Stati baltici. In Russia, correnti pagane si
sviluppano a velocità vertiginosa, nel bene e nel male, visto e
considerato il disastro sociale di questo Paese. Interessarsi al
Paganesimo mi sembra dunque pertinente.
Quello che più spesso si rimprovera ai Pagani, antichi e
moderni, è il passatismo. E lo stesso rimprovero che veniva
mosso dai marxisti a quei poveri pazzi che non consideravano Marx e
Lenin come gli orizzonti insuperabili del pensiero. Questo rimprovero -
di non essere "nel senso della storia - è del tutto insensato,
dal momento che il Paganesimo non ha una visione lineare del tempo, un
tempo visto come avanzata costante verso il Progresso (la
Parusìa) a partire da un momento ben definito (la nascita del
Cristo etc.). Questa concezione segmentata e lineare del tempo
c'è estranea.
Noi Pagani concepiamo il tempo come ciclico, proprio come i cicli
cosmici (quello solare, per esempio, con equinozi e solstizi). In
realtà il Paganesimo è una religione dell'anno, e dunque
della verità. Il tempo dei Pagani è quello dell'Eterno
Ritorno, simile alla grande Ruota che gira e gira senza posa.
Noi non crediamo né alla creazione né alla fine del
mondo. Per noi, non ci sarà apocalisse, bensì
innumerevoli fini di cicli, eternamente ricominciati. Una successione
senza inizio né fine di nascite, crescite e declini, di
crepuscoli seguiti da rinnovamenti, di cataclismi seguiti da rinascite,
in seno a un Ordine (in greco: kosmos) intemporale, in cui uomini e
Dei, mortali e Immortali, hanno il loro posto e la loro funzione.
Il mito del Progresso non ci appartiene. Noi non crediamo al senso
della storia (concetto totalitario, a mio avviso), alla "fine" del
Paganesimo, alla "morte" degli Dèi. Di conseguenza, il
rimprovero di adorare divinità morte ci lascia indifferenti.
I nostri Dei, le nostre Dee non sono morti, per la semplice ragione che
non sono mai nati. Apollo e Dioniso, Cernunno ed Epona, Mithra e
Perkunas sono eternamente presenti al nostro fianco. Citiamo Eraclito
(framm. 30): "Il mondo di fronte a noi - il medesimo per tutti - non lo
fece nessuno degli Dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed
è, e sarà, fuoco vivente, che divampa secondo misure e si
estingue secondo misure". Questo breve frammento vecchio di venticinque
secoli traduce le linee di fondo del pensiero pagano: eternità
del mondo, ciclicità del tempo, comunità dei mortali e
degli Immortali...
Se il tempo è lineare, come vorrebbero le teologie
giudeo-cristiana e razionalista, il Paganesimo è impensabile,
perché "morto", e scandaloso, perché si muove in
direzione contraria al sacrosanto senso della storia.
Ma se, come tutti noi avvertiamo, il tempo è ciclico, la
prospettiva muta radicalmente. Il Paganesimo non è mai potuto
morire: perché, a immagine e somiglianza delle innumerevoli
divinità che popolano i suoi innumerevoli pantheon, esso non
è mai nato. Se le sue forme antiche (liturgie, templi...) hanno
ceduto il passo ad altre che pure vi si sono largamente ispirate,
tuttavia restano gli archetipi, che sono essi stessi eterni. Un
bell'esempio è quello del Cattolicesimo medioevale, rimasto
molto pagano: è quello che personalmente chiamerei il
Pagano-Cristianesimo (fuochi di san Giovanni, e tutta la mitologia
cristiana).
Per meglio comprendere questa visione pagana del mondo, è
indispensabile superare i blocchi mentali - i famosi "ostacoli
epistemologici" di Bachelard - indotti dal modo di pensare
giudeo-cristiano. Marcel Détienne (uno dei maggiori ellenisti
contemporanei), puntualizza nella sua illuminante prefazione al bel
libro del professor W.F. Otto dedicato agli Dei della Grecia: "Dietro
il falso sapere dell'intellettuale e dell'universitario, spunta il
grande avversario (...): il cristianesimo, che fa da schermo fra gli
Dei greci e noi, e che ci ha imposto in maniera insidiosa un certo modo
di pensare la religione. Dapprima inoculandoci il virus
dell'interiorità: in base al quale la religione è
inseparabile da una relazione personale col Dio, che l'unico contatto
possibile con la divinità deve avvenire attraverso un soggetto
individuale - un Io che apprenderebbe il sacro grazie a una sorta di
protesi dell'anima, l'anima inquieta e pavida delle civiltà
malate. Altro male, non meno virulento: che il sentimento religioso
nascerebbe da un bisogno di salvezza che va di pari passo con la
trascendenza: che la finalità degli Dèi consiste nel
liberare gli uomini da questo mondo, nel farli salire accanto a
sé, nello strapparli a una natura dalla quale sono essi stessi
totalmente disgiunti. Con la sua angoscia di salvezza, Le sue gioie
segrete di anima peccatrice, il cristianesimo è soprattutto un
ostacolo epistemologico: una malattia, uno stato di languore al quale
bisogna strapparsi e dal quale bisogna guarire se si vuole riscoprire
la figura autentica degli Dei della Grecia".
La citazione è lunga, ma notevole come perfetto esempio di
teologia negativa del Paganesimo. Marcel Detienne ha colto benissimo le
differenze fondamentali tra Paganesimo e rivelazioni abramiche.
Qualcuno potrebbe obiettare che, nell'Antichità, esisterono
delle correnti, minoritarie ma privilegiate dalla ricerca moderna, come
l'Orfismo o i Misteri, che conoscono questa ricerca di salvezza
personale. Semplicemente, noi non ci abbeveriamo a questa fonte, alla
quale preferiamo la religione civile arcaica.
Un altro ellenista, Jean-Pierre Vernant, professore al Collegio di
Francia, si è già posto la questione di sapere in quale
modo noi potremmo vedere la Luna, Selene, con gli occhi di un Greco,
cioè di un Pagano: "Ho potuto provarci in gioventù,
durante il mio primo viaggio in Grecia. Navigavo di notte, d'isola in
isola; sdraiato sul ponte guardavo, sopra di me, il cielo in cui
brillava la luna, luminoso volto notturno, che diffondeva il suo
riverbero chiaro, immobile o danzante, sulla cupa distesa del mare. Ero
ammirato, affascinato da quel chiarore dolce e strano che bagnava le
onde addormentate; ero commosso come davanti ad una presenza femminile,
vicinissima e remota ad un tempo, familiare e tuttavia inaccessibile,
il cui splendore fosse venuto a visitare l'oscurità della notte.
Ecco Selene, mi dicevo, notturna, misteriosa e brillante - è
Selene che io vedo".
Il professor Vernant ha ragione, in questa poetica rievocazione della
sua gioventù, a parlare di "visione". Il Paganesimo è
soprattutto una conversione dello sguardo, quello che si rivolge su di
un universo del quale noi siamo, insieme alle Dee e agli Dèi,
una parte integrante. Per meglio assimilare questa visione pagana,
questo sguardo pagano, dobbiamo liberarci dal modello del "credente"
delle religioni abramiche. Questo termine è realmente privo di
senso per un Pagano: egli non crede, aderisce. Allo stesso modo, egli
non si converte ad un'altra religione, che sarebbe l'unica vera (e che
negherebbe ipso facto tutte le altre perché false, barbare o
rozze). Semplicemente, il Pagano ridiviene quello che è sempre
stato, perché l'anima è naturalmente pagana. Anima
naturaliter pagana.
Liberarsi, dicevo, dal modello del credente. Uno che crede di potersi
assicurare la salvezza individuale ed eterna quaggiù e
nell'aldilà, in seno ad una Chiesa che, di fronte agli
"infedeli" e ad altri eretici, deterrebbe essa sola il monopolio del
Vero e del Bene, e che sarebbe l'unica abilitata a conferire al
credente i sacramenti che fanno di lui un "fedele" in opposizione agli
infedeli", gli altri.
La nostra visione non è dualista, e noi respingiamo come prive
di senso le opposizioni artificiali fra Dio creatore e creature, cielo
e terra, anima e corpo, credenti e non credenti, ortodossi ed eretici
etc. Il Paganesimo è olistico, non dualista, e il nostro cammino
è soprattutto ricerca di legami più che di rotture.
Ancora una volta, noi non neghiamo l'esistenza, nel Paganesimo antico,
di correnti dualiste, alle quali però non facciamo riferimento.
Gli Dei e le Dee del Paganesimo non sono né unici né
onniscienti. Essi non hanno creato questo mondo, ma sono nati in esso e
attraverso esso. A mano a mano che l'universo, ciclo dopo ciclo, si
organizzava a partire da entità primordiali (Urano e Gaia, per
esempio), essi sono scaturiti per generazioni successive. I nostri Dei
non sono persone, con le quali stabilire relazioni personali, ma
Potenze. Essi incarnano la pienezza dei valori positivi: bellezza,
splendore, forza, giovinezza...
Nel Paganesimo, esiste una comunità d'uomini e Dei, di mortali e
Immortali. Nel Simposio Platone parla appunto di "comunanza reciproca
d'uomini e Dei". Nel Gorgia, egli precisa: "i dotti affermano che il
cielo e la terra, gli Dei e gli uomini sono legati insieme
dall'amicizia, il rispetto dell'ordine, la moderazione e la giustizia,
e per questa ragione essi chiamano mondo l'insieme delle cose e non
disordine e sregolatezza". Molti secoli più tardi, Heidegger
dirà: "La terra e il cielo, gli esseri divini e quelli mortali
formano un tutto unico".
Gli Dèi non sono dunque creatori del mondo ex nihilo: come
creare qualcosa a partire dal nulla? Essi sono emanazioni del mondo,
nel quale si manifestano. Questo concetto di manifestazione è
fondamentale nella nostra religione naturale, e si oppone a quello di
rivelazione, che per definizione è soprannaturale. Allo stesso
modo, noi ignoriamo dogmi e profeti, papi e curati, ortodossi ed
eretici, sette e guru.
Il Pagano è nel mondo, che si sforza, in tutta umiltà, di
decifrare per meglio cogliere le innumerevoli manifestazioni del
divino. E' Schiller, mi pare ne "Gli Dei della Grecia", che diceva:
"agli sguardi iniziati, ogni cosa indica la traccia di un. Dio" -
ancora questa idea dello sguardo!
Il Paganesimo non lascia mai che l'uomo si ripieghi su se stesso, sotto
il peso del peccato originale. Al contrario, essere pagano consiste
precisamente nell'aprirsi all'esperienza del mondo. Vorrei soffermarmi
per un momento sull'importanza dello sguardo, che i Greci chiamavano
theorìa, osservazione delle manifestazioni del divino. Essa ci
riporta all'antica concezione dell'èn tò pàn, che
si ritrova sia presso i Presocratici che nelle Upanishad: la dottrina
non dualista dell'unità. In questa visione, il mondo non
è visto come intimamente malvagio ("Il quaggiù", termine
quasi peggiorativo in francese), incline al peccato, valle di lacrime
da attraversare in tutta fretta prima di potere accedere ad un qualche
ipotetico "retromondo". Non bisogna fuggire il mondo, ma affrontarlo,
senza Illusioni né speranze di salvezza.
C'è dunque una reale accettazione del mondo, con tutte le sue
infinite imperfezioni, ma considerato pur sempre come manifestazione
del genio divino. La sua contemplazione attiva non può che
rafforzare il nostro sentimento d'identità col grande Tutto.
Queste concezioni intimamente pagane sono sopravvissute in seno alla
cristianità europea. Le si ritrova, soffocate, in Scoto
Eriugena, Meister Eckhart, Nicola Cusano... Il dogma cristiano del Dio
creatore esterno al mondo, sua creazione, è sempre stato
contestato. E la famosa tentazione panteista, tanto vilipesa dai
teologi ufficiali, gelosi custodi del Vero.
Già Cicerone, nel De divinatione, precisa: "tutto è pieno
di spirito divino e di senso eterno, di conseguenza le anime degli
uomini sono mosse dalla loro comunità d'essenza con le anime
degli Dei". Ricordate la citazione di Platone, poco più sopra?
Ippocrate diceva, secoli prima di Cicerone: "pànta thèia
kàt anthròpina" [ le cose sono divine e umane al tempo
stesso - N.d.T.]. C'è del divino nel mondano e del mondano nel
divino...
Ho citato prima W.F. Otto, professore all'Università di Tubinga,
oppositore del nazionalsocialismo e seguace di Zeus Olimpio. Nel suo
notevole saggio sugli Dei della Grecia, dice: "Non è a partire
da un aldilà che la divinità opera nel foro interiore
dell'uomo, o nella sua anima, misteriosamente unita ad essa. Essa
è tutt'uno col mondo. Essa si para dinanzi all'uomo a partire
dalle cose del mondo, quando egli è in cammino e partecipa al
fermento vitale del mondo. L'uomo fa l'esperienza del divino non
attraverso un ripiegamento su di sé, bensì attraverso un
movimento verso l'esterno".
Il Paganesimo ignora dogmi e catechismi. Nessun libro sacro ci
prescrive in modo autoritario quello che dovremmo "credere". La nostra
libertà di pensiero resta intatta. Soltanto, il nostro compito
consiste nell'onorare Dei e Dee per mezzo di riti, giacché il
Paganesimo è una religione d'opere più che di fede. Si
tratta, è vero, di una religione vissuta nei gesti: il saluto al
Sole e alla Luna, i solstizi e gli equinozi, l'offerta di un grano
d'incenso o di qualche fiore...
Si pensi con attenzione quanto ci sia di degenerativo nelle accezioni
moderne di: "fato", "fatale" e "fatalismo". Anteponiamo quindi l'antica
concezione di tali parole: il "fato" è la «legge dello
sviluppo del mondo», una legge «piena di senso e come
procedente da una volontà intelligente, soprattutto da quella
delle potenze olimpiche» (e non cieca, irrazionale e automatica
come nel senso moderno). Il fatum romano rimanda al rta indoeuropeo,
alla concezione del mondo come cosmos e ordine, e a quella della storia
come sviluppo di cause ed eventi, i quali riflettono significati
superiori. Proprio a tutto ciò si rivolgeva il significato di
fatum. L'espressione deriva dal verbo fari (da cui discende anche fas,
il diritto come legge divina), ed allude pertanto alla
«parola». La parola «rivelata», quella della
divinità olimpica che fa conoscere la giusta norma - fas - e
allo stesso tempo annuncia ciò che sta per avvenire. L'idea di
fatum non annullava per questo la libertà umana: il pagano si
cura pertanto di formare la sua azione e la sua vita in modo che esse
continuassero l'ordine generale, ne fossero in un certo senso il
prolungamento ed uno sviluppo ulteriore. Egli pertanto cercava, e cerca
di presentire la direzione delle forze divine nella storia, così
da potervi connettere in modo opportuno l'azione, da armonizzarla con
essa, rendendola massimamente efficace e carica di significato.
Ciò consegna alla magia del rito un'importanza molto rilevante:
le peggiori sciagure per il pagano nascono dall'aver trascurato gli
auspici, dall'aver agito disordinatamente e arbitrariamente, rompendo i
contatti con il mondo superiore, il mondo dell'invisibile.
Gli Dèi sono Potenze, mai particolari in sé - si tratta
sempre dell'Essere del mondo tutto intero, nella manifestazione che gli
è propria. Noi Pagani non ci attendiamo alcun soccorso, alcuna
salvezza dai nostri Dèi. La loro sola esistenza, la sola
presenza di queste entità inaccessibili e tuttavia familiari
basta a riempirci di gioia, a consolarci dei soprusi dell'esistenza. Se
noi non ci aspettiamo nulla dai nostri Dèi, anch'essi dal canto
loro sono indifferenti alla nostra sorte, ed è giusto
così. La morale della retribuzione ci è dunque estranea.
Venticinque secoli fa - ieri - Euripide ha espresso perfettamente
questo modo di sentire nella sua tragedia Ippolito. Ecco il dialogo che
si svolge fra Artemide e il protagonista al momento della sua morte:
" - Artemide: Addio, non mi è permesso di vedere i morti,
né di lasciare che il mio sguardo sta offuscato dall'ultimo
respiro di un moribondo. E già ti vedo vicino a questo passo
doloroso.
- Ippolito - Vai pure. E addio dunque, te felice! Possa tu rompere
senza soffrire una lunga amicizia".Superbo esempio di
superiorità e di distanza, agli antipodi d'ogni sentimentalismo.
E qui, indubbiamente, il grande merito di questa filosofia, di questo
atteggiamento: mai esitare a dire le cose come stanno, senza abbellirle
né lamentarsi, senza lusingarsi, senza nascondere nulla e senza
cercare la minima illusione consolatrice."
Ed eccoci ad un elemento centrale nella concezione pagana del mondo: il
Senso del Tragico. Gli Dei non sono onnipotenti, per quanto siano
simboli di pienezza. Essi non possono tutto, perché la loro
potenza è limitata dal Destino - Virgilio lo chiamava
"inexorabile Fatum". Esiste dunque un limite impossibile da superare.
Presso i Greci sono le Moire, presso i Romani le Parche, presso gli
Scandinavi, le Nome - che filano il destino proprio a ciascuno. Queste
potenze impersonali e inflessibili sono l'Ordine inviolabile del mondo.
Esse sono al di sopra degli Dei, come ricorda Omero: "nemmeno gli Dei,
dice Atena, possono allontanare la morte dall'uomo che prediligono
quando la fatale Moira colpisce".
Il senso del Tragico consiste appunto nell'accettazione del Destino:
amor Fati. Esso è, del pari, coscienza acuta dei propri limiti e
lucido rifiuto di ogni consolazione, considerata cosa indegna di un
uomo libero. Un bell'esempio di personaggio tragico è presentato
da Jacqueline de Romily nel suo ultimo libro dedicato all'eroe omerico
Ettore.
Gli Dei del Politeismo contemporaneo non concedono alcuna ricompensa. E
la nostra etica dell'onore che ci comanda di trasmettere un nome senza
macchia, di essere fedeli alla parola data e di rispettare i contratti.
Il Mithra degli Indo-Iraniani è proprio il Dio amico, quello del
contratto. Il Paganesimo è una religione non del peccato, ma
dell'errore. L'errore supremo è quello che i Greci, nostri
maestri, chiamavano hybris: la mancanza di moderazione, dettata
dall'orgoglio, che spinge l'uomo accecato a scagliarsi contro l'ordine
cosmico. Il più terribile esempio di hybris contemporanea
è dato dai totalitarismi moderni, i quali, a furia di voler
"cambiare l'uomo" in realtà lo avviliscono.
Il Paganesimo non postula alcun riscatto. Si tratta, è vero, di
una religiosità di questo mondo, una religiosità
dell'immanenza: il mondo è sacralizzato. La cosa sembrerà
strana per quanti continuano a credere che la sola vera religione sia
quella dell'aldilà. Ma essere Pagano oggi vuol dire anche
liberarsi da questo genere di cascami. Il Paganesimo non è una
religione del terrore, del disprezzo di sé, bensì della
piena salute, fisica e psichica: mens sana in corpore sano, diceva
Giovenale ( Satire, X, 356).
Inoltre il Paganesimo si caratterizza, idealmente parlando, per il suo
gusto dell'equilibrio. Sono ancora una volta i Greci a tracciare per
noi la via da seguire, col concetto delfìco di Méden
Agan, (nulla di troppo), illustrato dall'eccezionale senso delle
proporzioni dell'arte ellenica.
Il Paganesimo non è una religione di salvezza (anche se certi
culti misterici che assicurano la salvezza agli adepti vi trovano un
posto): si tratta invece di una religione terrena, mirante ad
assicurare la pienezza ottimale in questo mondo, hic et nunc. Vi si
cercherà invano la minima ossessione dell'aldilà. La
morte non vi è considerata come elemento centrale (col
corollario di un moralismo soffocante, e l'ipocrisia che ne
scaturisce). La morte è una tappa nel processo eterno di
trasmissione: come diceva Nietzsche - il filosofo col martello - "la
Ruota gira" e la danza degli elementi continua, senza inizio né
fine. Alla domanda angosciosa "che c'è dopo la morte?", noi
aggiungeremo l'altra - "e prima della nascita?". Per noi, i cicli sono
cominciati ben prima della nostra nascita e continueranno ancora per
molto dopo la nostra scomparsa, a maggior gloria degli Dei. Taliesin,
poeta gallese del Medio Evo, ha ben illustrato quest'intuizione:
Sono stato rivestito di un'altra forma
Sono stato salmone azzurro
Sono stato cane. Sono stato cervo
Sono stato daino sulla montagna
Sono stato palo. Sono stato vanga
Sono stato scure salda in mano
Sono stato gallo variopinto
Signore di galline schiamazzanti
Sono stato stallone nella scuderia
Sono stato toro nella fattoria
Sono stato setaccio del mugnaio
Aia del coltivatore
Sono stato seme nel solco
Sono cresciuto sulla collina
Chi mi aveva seminato mi ha raccolto
Questo bel testo è più che sufficiente per concludere
questa rapida presentazione del Paganesimo. Ho voluto citare qui tutta
una serie di testi - da Eraclito a Vernant, da Cicerone a Romilly, non
per pedanteria ma per meglio mostrare che io sono soltanto una maglia
di una catena plurimillenaria. In realtà, io mi considero
"parlato" da queste testimonianze di una fede secolare, angariata,
perseguitata, soffocata - ma sempre rinascente e indomita.
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