Talos Dioscuri Poseidon
Anphitrite Nereide
Di: Francesco
Tuccia
Che
cos’è il Paganesimo?
Come
sovente avviene in articoli di questo tipo è necessario
iniziare ab
ovo. La
parola “Paganesimo” deriva dalla parola latina
“Pagus” da cui Paganus.
abitante del Pagus, della
campagna. Più volte, nella storia di questa travagliata
umanità, si
sono indicati, in maniera spregiativa,
de’ movimenti sorti all’improvviso o antichi di
secoli
improvvisamente spodestati dalla cittadella
culturale da un altro movimento che cresceva lentamente, ma
inesorabilmente.
Come
esempi paradigmatici potremmo citare, nel primo caso, il movimento
“decadentista” in ambito
culturale, quello “fauvista” in ambito artistico,
quello
“anarchico” in ambito politico,
quello “punk”
in ambito sociale, ecc., tutti movimenti con una carica eversiva
intrinseca che, sorti all’improvviso,
generando angoscia con il proprio potenziale minaccioso, si ponevano
contro l’ordine
e la “norma” allora vigente, e finivano per essere
considerati in
un’ottica negativa e di conseguenza
qualificati con titoli infamanti.
Invece
nel secondo caso una tradizione millenaria veniva lentamente corrosa
alle fondamenta da un altro
movimento e, tolta impietosamente dall’altare su cui era
collocata
da secoli, trascinata violentemente
ed in maniera assolutamente arbitraria nell’area
dell’immoralità,
del vizio e del male, in
poche parole nell’area del peccato. Anche in questo caso il
movimento che, salvo poche eccezioni,
aveva retto per secoli le società antiche, veniva giudicato
privo di
ogni morale e
connotato
in maniera negativa.
La
parola “Paganesimo” ffi coniata dai cristiani in
evidente
dispregio delle persone, della cultura e dell’arte
che tutto ad un tratto “scopriva” di essere pagana.
Eh si, perché
la cosa ridicola, e a un tempo
drammatica, è il fatto che le persone che noi oggi
indichiamo con il
termine “Pagane” non sapevano
affatto di esserlo.
I
cristiani scelsero il vocabolo “Paganesimo” per
indicare le
persone che continuavano a seguire l’Antica
Religione perché constatarono che, a differenza degli
abitanti della
città, le persone che abitavano
in campagna erano riluttanti a convertirsi verso quella che sarebbe
diventata la religione di
stato. Si tratta dunque di un motivo oggettivo a generare questo
nuovo vocabolo: le persone che abitavano
nel pagus, a differenza di quelle che abitavano nelle città,
continuavano a seguire la propria
religione, la religione degli antenati, una religione etnica.
Effettivamente anche durante il medioevo
alcuni abitanti delle campagne continuarono a svolgere rituali in
onore degli antichi Dei e delle
antiche Dee affinché il loro raccolto e le loro
attività andassero
a buon fine.
Però
dobbiamo constatare un’altra cosa, e cioè che le
religioni pagane
hanno tutte quantomeno una
cosa in
comune, e cioè il fatto che sono religioni immanenti, al
contrario
delle religioni monoteistiche
che sono trascendenti. Che cosa vuol dire? Che mentre nelle religioni
monoteistiche Dio
sussiste indipendentemente dalla realtà, nelle religioni
pagane Dio
è coessenziale alla realtà.
Quindi
ta parola “Paganesimo”, nata per de’
motivi ben precisi, nel
corso del tempo, come spesso avviene,
ha mutato il suo significato ed oggi per
“Paganesimo” in genere
s’intende una religione molto
vicina all’ambiente ed alla natura. Questo è
senz’altro vero, ma
starei ben attento a non
cadere
in facili schematismi binari del tipo: il Pagano, in quanto persona
attenta alle esigenze dell’ambiente
in cui vive non può non essere ecologista ed il monoteista,
in
quanto proiettato verso un Dio
trascendente che NON abita la natura, provando scarso interesse nei
suoi confronti, sovente
la
violenta. In realtà sappiamo bene che ci sono (e ci sono
stati
nell’antichità) Pagani a cui
non interessa
nulla dell’ecologia e ci sono persone monoteiste attente a
non
avvelenare l’ambiente in cui vivono.
Se poi aggiungiamo che il termine “Ecologia”
è un termine
coniato ai nostri tempi,
inesistente
nell’antichità, ci rendiamo conto che non ha alcun
senso parlare
di “Ecologia Pagana”.
Un
Pagano per essere tale non ha bisogno di essere ecologista ed un
ecologista - è evidente - non ha nulla a
che vedere con la cultura Pagana antica o moderna. Fatta
questa doverosa premessa vorrei parlare del MIO Paganesimo.
Non è
facile parlare del Paganesimo. Volendo usare un’espressione
vacua e
sfruttatissima, il Paganesimo
è tutto ed il contrario di tutto. Con questo voglio dire che
il
Paganesimo è una religione talmente
varia, che difficilmente si possono trovare due Pagani con le stesse
idee sulla religione - ci
sono
Pagani religiosi e Pagani atei, Pagani idolatri e Pagani
secolarizzati, ecc. - sull’esistenza degli Dei e
delle Dee - c’è chi non crede affatto
all’esistenza degli Dei e
delle Dee, chi crede che Essi/e siano
Antropomorfi/e, chi Li/e considera delle Entità
Archetipiche, delle
Potenze, ecc. -
sull’escatologia
- c’è chi crede nella reincamazione, chi crede che
dopo la morte
non ci sia nulla, chi
crede che dopo la morte ci siano de’ luoghi ben definiti,
ecc. Io
parlerà dunque della mia visione del
Paganesimo, accennando ai temi testé rammentati
poiché non è
questa la sede per trattare
diffusamente
di argomenti quali la natura degli Dei e delle Dee, l’etica
pagana,
ecc., tutti argomenti a cui
vorremmo dedicare in flituro i nostri quadernetti.
Per
poter dire chiaramente la mia visione del Paganesimo non posso non
riportare ampi stralci dal libro
che più di ogni altro mi ha stimolato in questi ultimi
tempi, “I
nuovi pagani” del filosofo Salvatore
Natoli.
Premetto
che non è mia intenzione cercare di confutare le posizioni
del
professor Natoli, non solo perché
le condivido in larga parte, ma anche e soprattutto perché
sono
tutte Legittime ed assolutamente
non suscettibili di confutazione. Quindi io proporrà un mio
modello
di Paganesimo,
diverso,
forse opposto al suo, proponendo una sorta di aporia in cui due
posizioni egualmente valide -
almeno spero per quanto riguarda la mia - convivono serenamente senza
annullarsi e senza che una
elimini l’altra.
Innanzitutto
è emblematico il diverso titolo delle nostre pubblicazioni,
da una
parte “I nuovi pagani”
e dall’altra, “Paganesimo”. La questione
può sembrare
peregrina, in realtà non la è affatto.
Il
professor Natoli fa una chiara e netta distinzione fra Paganesimo e
Neopaganesimo.
lì
Paganesimo è una cosa, il Neopaganesimo
un’altra.
Egli
mette subito in chiaro che noi Pagani, in quanto Pagani, non
proveniamo da alcuna discendenza:
“Le
forme di paganità che appaiono nella società
contemporanea sono del
tutto dissimili da quel paganesimo originario; e
anzi, assumendo i greci come il luogo della paganità, si
può e si
deve dire che ai greci non si torna. Noi
non apparteniamo più al continuum della paganità,
ma la paganità è
in un certo senso il frutto di un’appropriazione, di
una decisione, di uno stile, di una sagoma che ci si dà: non
è il
risultato immediato di un vissuto, ma in un certo senso
diventa
una forma di opzione.” Pag. 21
Come
vedremo fra poco, il Cristianesimo non ha permesso al Paganesimo di
potersi conservare e rimanere
immutato fino ad oggi e la tecnica ci impedisce di essere nuovamente
Paganh La
cifra che contraddistingueva il Pagano
dell’antichità era la
coscienza del dolore che egli aveva e
che ora
non ha, né potrà avere più,
eventualità questa che gli impedisce
di essere Pagano. Dunque non
Pagani, ma Neopagani. Individui, cioè, che possono scegliere
alcuni
modelli dell’antichità, ma a cui
è
preclusa la possibilità di ritornarvi:
“(...)
il greco (...) vede dinanzi a sé - e ne ha chiara coscienza
- la
dimensione eversiva dell’esposizione
alla contingenza
in cui l’uomo è posto, dell’orrore.
Proprio perché ha un senso
profondo dell’orrore e della crudeltà, e
non vuole
essere fagocitato, assorbito, rapito da questa potenza, deve avere
una risposta altrettanto forte rispetto a ciò che
lo vuole
distruggere; ecco perché nel dolore bisogna essere
più duri del
proprio dolore. Per legge d’eleganza, per stile
d’esistenza,
per dovere di forma.” Pag. 28
Questa
era la base della Paganità dell’antica Grecia. Da
qui è possibile
capire il motivo per cui la nostra
antica civiltà era così ossessionata
dall’estetica al punto da
raggiungere la perfezione nelle arti.
Così continua il prof. Natoli:
“La
dimensione eroica dell’esistenza è incentrata
fondamentalmente
sull’idea della perfezione di sé. Come
perfezione finita,
certo; però con il massimo da dover trarre da sé
per configurare la
propria potenza”. Pag. 28
Potenza
non fine a sé stessa dunque, ma unico mezzo per poter vivere
innanzi
alla continua minaccia
delle insidie del mondo in cui viviamo.
“La
statuaria greca non è un fenomeno estetico, è una
metafisica: non
vita eterna; vita lunga. Questa è la configurazione
dell’eroe. Ma
quest’attenzione alla propria forma non deve diventare
tracotanza,
non deve diventare infinitizzazione di se, perché la
perfezione
della forma non toglie la necessità della stia
finitezza” Pag. 28
Dunque
finitezza dell’essere umano, e L’uomo greco ne
è cosciente:
“Il
greco ha terrore dinanzi alla contingenza, dinanzi
all’esposizione:
il balzo della fiera, l’agguato del nemico, la malattia, le
insidie
della natura, le avversità dell’ambiente, le
aporie. Non riuscire
qui e ora significa semplicemente fallire. E proprio perché
il greco
ha il senso della spietatezza della natura, ha anche il senso della
differenza tra gli uomini, della disuguaglianza. Non tutti hanno una
potenza sufficiente per vincere, esistono gli sconfitti. Ma i
vincitori non hanno vinto una volta per sempre; anche chi vince
è
esposto alla possibilità di perdere, anzi, quando un dio
vuole rovinare
un uomo, lo illude della sua potenza. fi vincitore, perché
la
vittoria sia mantenuta, è necessario che sia collegato al
suo senso
della esposizione, alla sua possibilità di morte.”
Pagg. 29-30
Oggi
la
coscienza del dolore propria degli antichi Greci è andata
perduta.
La tecnica ci ha fornito strumenti
formidabili per sconfiggere definitivamente il dolore:
“Tutto
il modo moderno di pensare la prevenzione sotto tutti gli aspetti
è
soprattutto un lavoro per facilitare le condizioni
dell’esistenza.” Pag. 34
Non
posso che sottoscrivere tutto quello che afferma il prof. Natoli,
però poi fa un’interessante analisi
che, a mio parere, lungi dall’allontanarci, ci avvicina
irrimediabilmente al Paganesimo:
“Nel
greco la dominante è la crudeltà del destino.
L’uomo sbaglia
perché è accecato. L’intellettualismo
socratico svilupperà in
modo radicale quest’aspetto, quando dirà che se
l’uomo sapesse
non peccherebbe. In questa convinzione socratica riecheggia il grido
arcaico che, se si pecca, si pecca perché si è
accecati. Siamo in
una dimensione completamente opposta a quella ebraico-cristiana. Ha
ragione Creonte, in quanto capo di stato, a impedire che Antigone
seppellisca
il fratello; ha ragione Antigone, in quanto pieeas familiare, a voler
seppellire il fratello. Nel dilemma, la ragione e il torto non sono
tagliabili. La tragedia non finisce mai, è sempre nel suo
inc4nit.
Stare nel tragico non vuol dire sanare la contraddizione, ma essere
duri tanto quanto basta per tenere uno spazio nell’aporia,
saper
giocare nel dilemma. Quindi necessariamente il tragico doveva
diventare la dialettica della filosofia. La filosofia come tecnica
dei
sistemi,
come terapia: questo è il profilo della paganità.
Nel
neopaganesimo molti aspetti saranno perduti, ma molte vestigia, molti
emblemi, molti profili vogliono essere riproposti. Senza facile vita,
però, perché a metà fra quel mondo e
il nostro stanno due eventi
inarrestabili: il cristianesimo prima e la tecnica dopo. I greci si
sognano, ma ai greci non si torna.” Pag. 35
Eppure
il prof. Natoli ha perfettamente delineato il nostro modus vivendi.
Sono molti gli aspetti che ci
dividono dalla cultura ebraico-cristiana, ma l’aspetto che
più di
ogni altro si configura alla stregua
di un vero e proprio abisso fta noi e loro è proprio il
dilemma che
c’impedisce di distinguere
la ragione dal torto. Proprio perché da sempre consideriamo
la vita
un coacervo in cui si mescolano
milioni di aspetti uguali e contrari, in cui i confini del torto e
della ragione, lungi dall’essere
robusti e ben definiti sono elastici in modo da spezzarsi spesso in
più punti, oppure tali da
dilatarsi e restringersi continuamente, talvolta inglobandosi fra di
loro. E’ proprio questo nostro rifiuto
inconscio di una vita miseramente binaria fondata su questo o su quel
punto di vista che ci
porta
ad essere meravigliosamente Pagani.
Che
cosa è giusto? Che cosa non lo è? ,Chi ha
ragione? Chi ha torto? Il
nostro cuore, da sempre, batte
dalla parte di Antigone, ma che sofferenza pensare che anche Creonte
aveva le sue ragioni! Purtroppo
avere la verità in tasca non è una nostra
prerogativa. Dico
“purtroppo” perché sarebbe
più facile
vivere cercando risposte già preconfezionate nei libri sacri
o nelle
parole de’ vari profeti. Nulla è
eterno, nulla è indiscutibile, tutto cambia. “Non
ci si bagna mai
due volte nello stesso fiume”,
ci suggerisce Eraclito.
Tutto
questo ci porta ad avere un grande senso di responsabilità.
Ogni
qualvolta ci troviamo innanzi ad una
diatriba partono, in noi, riflessioni che cercano di tenere in
considerazione i vari punti di vista.
E poi tutta una serie di ragioni di ordine storico, geografico,
scientifico, ecc. Già, la vita non
è affatto
semplice. Che cosa è secondo Natura? Che cosa è
contro Natura?
Quali sono i confini fra uomo e
donna? E inoltre, che cos’è un uomo? Che
cos’è una donna? Non
esiste nulla di sicuro, di definitivo.
In
genere si dice che il Paganesimo è morto nel IV-V secolo ev.
con la
distruzione di tutti i templi e l’eliminazione
fisica o la conversione (forzata aggiungerei io) di tutti i sacerdoti
Pagani e di tutte le sacerdotesse
Pagane. Il Paganesimo è terminato ed è stato
sostituito dal
Cristianesimo. Unica civiltà non
cristiana che si è mantenuta, da quel tempo, fino ad oggi
è quella
ebraica. Al di là del fatto che culti e
rituali si sono mantenuti per altri secoli soprattutto nelle campagne
per cui io dilaterei il termine
che indica la fine tout-court del Paganesimo, se è vero che
la
maggior parte del nostro patrimonio
culturale è andato perduto per sempre, è anche
vero che nei secoli
la nostra essenza di Pagani
si è perfettamente mantenuta. Scrive infatti il prof. Natoli:
“La
grecità in un certo senso è durata anche nei
secoli cristiani: C’è
stata la paganirà latente. Con esplosioni, con curve alte,
che sono
note nella storiografia: basti pensare al Rinascimento, al
Neoclassicismo e, per larghi aspetti, al Romanticismo, dove la
paganità si compone con una dissoluzione-immanentizzazione
dell’elemento cristiano. Il Romanticismo è questa
strana
mescolanza di temi pagani ereditati dal Settecento che si compongono
con un cristianesimo diluito, immanentizzato, paganizzato a suo modo.
Basti pensare al culto della Madonna in personaggi come Novalis,
basti pensare all’eterno femminino goethiano: un
cristianesimo che
disperde la sua dogmatica per diventare religione naturale e si
mescola con forme di neopaganesimo, dove tutte e due le cose
cominciano a disfarsi, a deformarsi, a creare un altro
impasto.”
Pag.36
Il
Cristianesimo, dicevamo, ha lavorato al punto da annientare il
Paganesimo. Ma non per il fatto che i
saperi legati alla nostra religione sono andati perduti,
bensì per
il fatto che ha iniettato nell’essere
umano il disgusto verso la sofferenza che, come si è visto,
era la
base della Paganità
antica.
Quindi non è la scomparsa delle formule
“magiche” per celebrare
questo o quel rito ad averci
privato della possibilità di poter essere Pagani oggi.
Infatti:
“Tutto
ciò che viene dalle mani di Dio è buono, tutto
ciò che è toccato
dal peccato è negativo. La teologia cristiana ha giocato
entro
questi due registri: chi guardava alla creazione tendeva a
valorizzare il cosiddetto uomo naturale, chi invece guardava alla
potenza dissolutrice del peccato era più attento
all’elemento di
miseria, di impotenza, di incapacità di essere buoni senza
un
intervento di Dio. Il cristianesimo ha inoculato il germe della
salvezza assoluta da un lato, ma
anche
della vanità di questo mondo dall’altro. Anzi
questo mondo può
essere sentito come vano se e solo se si suppone possibile un mondo
senza dolore. Un greco non avrebbe mai potuto concepire una vita
senza il dolore. Ecco perché bisognava essere più
duri del dolore.
Ecco perché bisognava ribadire la propria forma.
E’ il
cristianesimo che dà il segno di un mondo senza sofferenza;
e allora
in quella luce: in quella prospettiva, questo mondo è
vanità: in
hac lacrimarum valle. Questo stato d’animo
è entrato
nell’Occidente con il progressivo crescere della potenza
del
cristianesimo,
e quindi la dimensione di vanità, questo velo
d’ombra, si è
adagiato su tutta la terra. Anche chi era in una dimensione pagana
sentiva questo velo d’ombra: è vero nel mondo
c’è dolore, è
vero nel mondo c’è sofferenza.
Gettandovisi
contro, il cristianesimo ha talmente fatto vedere la miseria da avere
indebolito l’uomo nei suoi confronti.
Nel
contempo ha fatto vedere all’uomo un esito così
bello, che anche
chi è pagano e non crede dice: «Sarebbe bello un
mondo senza
dolore!». Il cristianesimo ha alterato l’anima
pagana. Nel momento
in cui il sogno di un mondo senza dolore è apparso, non ci
si adatta
più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza
dolore non
esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un
sogno che non si
cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia
vuole che ci
sia.
La
vanità dell’esistenza pesa in un modo tremendo.
Nell’uomo greco
anche in mezzo al dolore c’era sempre l’amore per
la terra. Nel
cristianesimo si sviluppa questo germe profondo di disamoramento. La
vita etica non può sciogliersi dalla malinconia. Il profilo
della
malinconia è l’ombra elegante che il cristianesimo
disegna nel suo
paganesimo interno. Nei secoli cristiani anche chi è pagano
è
malinconico.” Pagg. 37-38.
Eppure,
nonostante l’anima Pagana sia stata alterata dal
Cristianesimo
questa, silenziosamente, s’inserisce
nell’anima cristiana che pensava di averla definitivamente
annullata:
“Ma
questa componente di malinconia è legata all’altro
momento pagano
coltivato dallo stesso cristianesimo: la bontà della
creazione. In
questo senso c’è una specie di
continuità: l’atteggiamento
positivo che il pagano aveva nei confronti della terra è
ribadito
dalla bontà della creazione. Nonostante la vanità
del tutto, c’è
nella natura qualche cosa di buono da coltivare, coltivando con essa
la propria misura. Noi abbiamo elementi di neopaganesimo
incentrato
fondamentalmente
sulle categorie della formazione personale, della cura di
sé,
elementi che vediamo presenti in modo moderazione. La moderazione ha
un taglio dichiaratamente epicureo: godere con misura. Non asservirsi
alla passione ma trovare la misura significa sviluppare anche il
proprio aspetto eroico, il proprio aspetto di resistenza,
perché per
non cedere alla passione bisogna avere anche una capacità di
autodominio. di astrazione di sé rispetto alla
dolcezza
dell’esistenza
che può corrompere. Abbiamo elementi di epicureismo legati
ai gusto
e al piacere delle cose nella loro immediatezza: siano essi i piaceri
della carne, siano essi i gusti dell’intelligenza o la
dolcezza dei
sensi. Tutte le corti rinascimentali hanno questi elementi. E questi
sono i modi in cui ci si stacca dalla malinconia e, seppure con
un’ombra di caducità, non si dimette la
possibilità del piacere.
(....) Questa vena, che mescola stoicismo ed epicureismo a un tempo,
crescerà nel corso della dissoluzione stessa del
cristianesimo. E
comunque una vena minoritaria, una vena
élitaria;
lo sviluppo e l’incremento di questa linea suppone che la
cristianità si restringa. Questa attenzione ai sentimenti
dell’io,
questo elemento di piacere segnato dalla vanità, questo
elemento di
senso della terra legato pur sempre al sogno di una proiezione
futura, noi lo vedremo per esempio nei movimenti libertini.”
Pagg.
38-39
Infine,
tornando a noi, tornando all’oggi:
“(...)
non essendoci più un fondamento indefettibile di
verità, ci sono le
possibilità di una ripresa di forme di
paganità. Si
è restituiti di nuovo alla terra, però si
è restituiti in un modo
completamente diverso da quello del mondo pagano.
Mentre
nel mondo pagano si apparteneva alla terra e al suo ciclo, qui si
è
restituiti alla terra che però non ha più cicli.
Si torna spaesati
alla terra. E si torna spaesati alla terra perché si
è caduti dal
cielo: il cristianesimo ha reso impossibile il paganesimo anche nel
ritorno alla terra.” Pag. 45
Senz’altro
il professor Natoli ha le sue ragioni quando afferma che il
Cristianesimo ha reso impossibile
il Paganesimo anche nel ritorno alla terra, ma ciò sarebbe
vero se
noi Pagani tornassimo alla
terra guardandola con gli occhi de’ cristiani, In
realtà, essendo
Pagani, non possiamo non guardare
la terra con occhi Pagani, che sono poi i nostri occhi. Non si tratta
di avere un comportamento
anacronistico a tutti i costi. Noi guardiamo ad una natura fondata
sulla ricorrenza.
Una
natura in cui non è impressa alcuna legge assoluta della
volontà
divina.
Una
natura che ci rivela dei cicli, che ci mostra la verità a
cui noi ci
adeguiamo, una verità a cui noi accediamo in religioso
silenzio,
senza interferire in alcun modo. Una verità che non
consideriamo né
buona né cattiva, ma la verità che la natura ci
offre. Per noi non
esistono brutte stagioni. L'autunno e l'inverno ci sussurrano parole
sagge. Ci invitano a raccoglierci ed a meditare, non a disperarci
perché d'inverno non si può andare al mare a fare
il bagno, per
quello ci sarà tempo d'estate. Non è il caso di
disperarci perché
gli alberi nel giardino assumono la forma di spogli scheletri
d'inverno. Ma che, cambiando completamente aspetto durante la
primavera quando fioriscono e durante l'estate quando donano frutti,
ci rivelano il perpetuo avvicendamento delle stagioni. Abbiamo in
orrore le ciliegie in inverno o i mandarini in estate. Rifuggiamo
come il peggiore dei mali la tecnica che ci permette di far fiorire
il mandorlo in dicembre ed il caco in estate.
Avremo
in orrore qualunque diavoleria avesse il potere di cancellare il
freddo e di regalarci una temperatura mite 265 giorni all'anno.
Dunque, “Nei secoli cristiani anche chi è pagano
è malinconico”.
Anche
nel secolo che mi è capitato di vivere il sottoscritto
è
malinconico. Per il fatto che desidererebbe vivere in un tempo di
sola felicità o per il fatto che l'amata Natura è
stato affibbiato
un ruolo poco ortodosso?
Non
riesco a capire il nostro grande poeta Giacomo Leopardi quando
considera la Natura “Matrigna” né
condivido le opinioni del mio
ex insegnante di lettere secondo il quale la Natura è
cattiva.
Queste considerazioni sono completamente estranee al mio modo di
pensare proprio perché ho sempre pensato che la Natura non
è né
buona né cattiva, ma È ! Non diamo alla Natura un
ruolo in base a
parametri culturali relativi, talmente relativi da risultare
inesistenti.
Voglio
provare ad esprimermi con un semplice esempio.
Una
decina di anni fa lessi un quotidiano romano la confessione di una
ragazza filippina che viveva a Roma da alcuni mesi. Ad un certo punto
disse (cito a memoria): “Quando cammino per strada non si
gira mai
nessun ragazzo a guardarmi. Eppure dal paese dal quale provengo sono
considerata una bella ragazza.”
Ecco un
esempio banale ma eloquente: chi incolperà questa ragazza se
nessun
ragazzo italiano si volta a guardarla, la Natura? Od è forse
un
parametro culturale ad impedire di sentirsi apprezzata nel paese
straniero in cui vive? Per quanto riguarda non riesco a concepire
nemmeno lontanamente l'idea di una Natura colpevole di qualche cosa.
Quindi provo un’assoluta indifferenza verso tutto il lavorio
che il
Cristianesimo ha fatto alla nostra anima in tutti questi secoli. Ho
sempre trovato assurda l’eventualità di vivere in
un mondo privo
di ogni forma di dolore. E non muoverei un dito per dirigermi verso
un’utopia che per me è priva di ogni senso.
Che
importa se ci ammaleremo in inverno? Abbiamo in onore i vaccini.
Tutto questo proprioperché
siamo Pagani. E saremmo Pagani anche se scoprissimo che esiste un Dio
onnipotente che regola
l’andamento della natura. Noi sempre e solo alla natura ci
adegueremo ed ai suoi cicli, non
muoveremo
un solo dito per cambiarla a nostro favore.
Nel
paragrafo dedicato al processo di immanentizzazione di Dio il
professore Natoli afferma:
“L’esito
della secolarizzazione non è il nichilismo, ma
può essere la
divinizzazione del tutto e quindi, ancora una volta, un
paganesimo dopo il cristianesimo; che non è più
greco ma può
essere ancora pagano.” Pag. 46
“Nella
radicalizzazione dell’incarnazione non
c’è più l’io-tu, non
c’è la relazione dialogica, essenziale a tutta la
tradizione
ebraico-cristiana, che è prossimità ma anche
distanza; al
contrario, qui il finito-mondo diventa Dio. Ma quando il mondo
diventa Dio si ha da un lato la mondanizzazione
dell’infinito,
dall’altro l’infinitizzazione del mondo: ecco
Giordano Bruno: «Nell’infinito universo e
mondi».
Allora
la secolarizzazione che procede dalla radicalizzazione
dell’incarnazione si sviluppa come tensione interna tra
cosmico e
a-cosmismo. Una successione di tipo cosmico è una
successione che
tende a pensare la totalità secondo la prospettiva di un
ordine
finito, tende a chiudere (il cosmo è la
rappresentazione
di un ordine). L’a-cosmismo è la sussistenza di
mondi diversi
rispetto ai quali non è possibile predisporre una visione
cosmica;
in sostanza l’infinito non è cosmologizzabile
finitisticamente
perché qualsiasi cosmologizzazione dell’infinito
non è altro che
una prospettiva su l’infinito, ma come tale disadeguata
rispetto
all’attualità dell’infinito. Quindi
l’infinito non è un
qualcosa che può essere rappresentato (la rappresentazione
infatti è
una finitizzazione, quindi inadeguata). Al contrario,
l’infinito
può essere vissuto. Ecco la
radicalizzazionedell’incarnazione.
Proprio perché tutto è in tutto, e tutto
è divino, non c’è più
Dio qui che là: in questo istante c’è
la totalità del divino, lì
divino c’è nell’orrore, il divino
c’è nel tremendo. Attingere
questa dimensione di infinitizzazione vuol dire appunto superare il
dolore nel dolore stesso, hic et nunc; e quindi da
questo
punto di vista non c’è più bisogno
neppure di una salvezza
futura.” Pagg. 46-47
“L’esito
della secolarizzazione in questo caso non è quello
nichilistico del
delirio di onnipotenza in cui l’eccesso della produzione di
sé
divora se stesso, ma è un dire si (l’Amen
nietzschiano)
all’istante. Se questo è vero, si può
trovare una dimensione di
neopaganesimo come ruotante intorno a questo doppio polo; il
neopaganesimo avviene non soltanto all’interno di un
decantarsi di
Dio per successione dinastica (fine dell’onnipotenza e
autoaffermazione del soggetto) ma
anche
per immedesimazione mondo-Dio. La prima è la linea vincente:
è
quella dell’uomo che si impadronisce della terra, del
progetto uomo
che ha come suo oggetto il telos. Mentre per
l’antichità ogni
progetto umano si inscriveva dentro il telos.
cioè dentro la
finalità naturale, caratteristica della modernità
è che l’uomo
vuole e può dominare il telos, creando
così una continuità,
anzi una indifferenza, tra natura e artificio. Nella visione greca,
l’azione dell’uomo non
può,
per quanto potente essa sia, trasformare il sistema della forma.
Questo sistema, l’economia della natura, è
qualcosa di
intrasformabile da parte dell’uomo. L’uomo si
può adeguare a
essa, la può mantenere, ma il fondo della natura
è dall’uomo
intrasformabile. Tentare di superare la barriera della natura
significa perire. Questa è la struttura del progetto umano,
dello scopos. Allora lo scopo umano ha un intento
di trasformazione
ma tocca un limite, una barriera: l’orde naturalis,
il
sistema delle forme.
Con
il moderno, con l’onnipotenza, con questo passaggio dinastico
da
Dio all’uomo, l’uomo non è soltanto
colui che deve adeguare
l’oggettività delle forme, ma è colui
che si pone come suo
progetto il dominio del telos. Lo scopo non si
rivolge più
dentro un telos immodificabile, ma lo scopo
dell’uomo è
quello di modificare il telos, cioè di
abbattere la struttura
ciclica della natura, di intaccare l’economia delle forme.
Allora
l’oggetto della decisione umana non è
più
l’insieme
delle decisioni limitate entro un ordine immodificabile, ma
è la
decisione della modificazione dell’ordine. La decisione
dell’uomo
è di farsi felix atque immortalis, e
quindi di trasgredire la
barriera del telos e fabbricarsi. Questo induce
l’uomo ad
avere rispetto alle forme non una struttura di rispecchiamento
(riconoscere come funzionano), ma una struttura di creazione, di
manipolazione. Nel momento in cui l’uomo produce se stesso,
allora
diventa creatore delle
forme,
e il mondo diventa lo spazio di una sperimentabilità
infinita. Oggi
si parla di ingegneria genetica, di manipolazione del DNA; oggi un
fiore non si sviluppa più secondo il suo ciclo, oggi
è modificato
nella sua struttura, ma non attraverso l’innesto,
bensì attraverso
il gigantismo del fiore, il mostruoso. C’è quindi
una tendenza
marcata all’indifferenza tra natura e artificio.
Perciò sorge il
problema di stabilire cosa è naturale e cosa non Io
è; ma tale
dubbio è pensabile soltanto in un progetto in cui lo scopos
umano
ha come suo oggetto il telos, così che
è possibile
l’alterazione
della physis.
Per l’antico, invece, per quanto alta potesse essere la
decisione
dell’uomo, la decisione accadeva entro un ciclo
immodificabile.
Soltanto quando l’uomo si sente Dio, assume a suo progetto la
modificazione del telos, diventando signore di una
sperimentabilità infinita.” Pagg. 47-48
Non
si tratta di demonizzare la tecnica, il nostro desiderio di
continuare a scoprire, sapere sempre di
più, ecc. La tecnica non è diabolica in
sé. Si tratta di
ridefinire gli scopi, di ridefinire l’etica che sta
alla base delle nostre scelte, e non solo in campo scientifico. Il
Panteismo che sta alla base della nostra
etica non è un idolo che mette i bastoni fra le ruote della
scienza,
è un modo di vivere e concepire
ciò che ci sta intorno. “La Terra è una
Dea” non deve
proiettare l’immagine di un difficiante
genuflesso innanzi ad un’enorme statua eburnea di una robusta
e
prosperosa Dea, ma quella
di un individuo che vuole vivere in armonia con tutto ciò
che lo
circonda.
E
torniamo alla questione che abbiamo appena dibattuto. Il fatto che
oggi l’essere umano sia in grado
di manipolare tutto ciò che gli sta intorno considerando
giocattoli
nelle sue mani tutti gli esseri
viventi non implica che anche noi Pagani la pensiamo automaticamente
nella stessa maniera.
A
noi non interessa fare i felices atque immortales, felices
si,
ma non immortales. Aborriamo qualsiasi
cosa possa trasgredire la barriera del telos.
Aborriamo le
diavolerie transgeniche, le manipolazioni
del DNA, i trapianti degli organi, ecc. dal momento che le viviamo
tutte come violazioni
della Natura. Anche qui ci riconosciamo completamente nel modello
greco: vogliamo adeguarci
alla natura, vivere bene, essere felici, ma non trasformarla. Non
aborriamo la tecnica tout-court,
non è nostro desiderio andare in giro in chitone e sui carri
trainati dai cavalli. Molto semplicemente
vogliamo godere delle nuove invenzioni, delle nuove scoperte, senza
che queste comportino
dolore per la Natura e per gli esseri viventi che ci circondano.
D’altronde i Greci stessi
conoscevano
ed utilizzavano una tecnica avanzata, addirittura sconosciuta in
certi casi nell’epoca del
medioevo.
Guardare
dunque la natura con gli occhi de’ Greci.
E
giungiamo al punto centrale della distinzione fra Paganesimo e
Neopaganesimo.
“(....)
il neopaganesimo contemporaneo, che si sviluppa all’interno
del
processo di secolarizzazione, ha una caratteristica che può
essere
formulata brevemente in uno schema: abbiamo un paganesimo senza
tragedia e un bisogno di salvezza senza fede.” Pagg. 48-49
“(...)
Il processo di dominazione, la signoria dell’uomo sul mondo,
lo scopos
umano che ha come suo oggetto il telos
e quindi l’infrazione del ciclo naturale, consiste nello
sforzo di
rendere lineare la ciclicità. Se lo scopo
dell’uomo non è più
quello di prendere decisioni entro la stabilità del ciclo
naturale
ma è quello di avere come oggetto della propria decisione il
ciclo,
questo significa che il suo scopo è di rendere lineare il
ciclo,
cioè di spezzare la stabilità della
natura,
e
di fabbricarsi così il paradiso. Nel momento in cui
l’uomo è
l’autore della propria salvezza, ritorna alla terra.
Ma
è definitiva questa formula? Nella società della
tecnica non è
l’uomo che torna alla terra ma al contrario è la
terra che è
assegnata alle mani dell’uomo. Ecco perché abbiamo
a che fare con
un paganesimo del tutto diverso dal paganesimo antico. Non
c’è più
differenza tra il cielo e la terra, tra questo mondo e
l’altro
mondo, non c’è più l’esigenza
di un garante divino per la
propria salvezza; e questo vuol dire che siamo interamente sulla
terra. Ma non siamo sulla terra al modo dei mortali (situazione
antica); pretendiamo invece di essere sulla terra secondo lo stile
degli immortali.
Nell’uomo moderno c’è fondamentalmente
questa dimensione, che
non è individuale e privata (tutti ci sentiamo esposti al
dolore,
alla morte, all’incertezza), ma si configura piuttosto
nell’astrazione del sapere. La grande modificazione, infatti,
che
avviene nel processo di dominazione sul telos
consiste in una
progressiva egemonia dello strumento sul manovratore. Se prima la
tecnica veniva usata dall’uomo (e l’uomo era quindi
il soggetto
della trasformazione), ora, nel processo di sofisticazione, io, uomo,
divento sempre di più il sistema delle
rappresentazioni, perdo
la mia unità di sostanza separata per diventare sempre
più io
stesso schema mentale. L’uomo, nel processo di realizzazione,
si
astrae nello strumento, che diventa sempre meno materiale e sempre
più intellettuale; in questo modo si venrica una
smaterializzazione
della corporeità.” Pagg. 49-50
Ho
già detto che i Pagani non pretendono assolutamente di
essere sulla
terra allo stile degli immortali.
Proprio perché si finirebbe con il perdere l’unico
tipo di
rapporto che concepiamo con la nostra
amata terra. Xenofontes diceva che la terra è una Dea. Dopo
quasi
tremila anni noi Pagani diciamo
la stessa identica cosa. Sicuramente il nostro modus vivendi in larga
parte è cambiato, ma non
il nostro rapporto nei confronti della Physis. Due millenni non
passano invano, cambiano molte percezioni,
ma l’anima, l’ambito spirituale, rimangono
inalterati. La
percezione che abbiamo della terra
ed il sentimento che nutriamo nei suoi confronti è identico.
lì
professor Natoli dice giustamente:
“Nell’uomo moderno” e fa bene ad usare
questo termine in senso
generico, perché noi non
ci riconosciamo affatto in questa definizione. Se è vero che
vivo la
mia vita da cittadino del XXI
secolo, è anche vero che la mia anima, la mia
religiosità, sono
vicine a quella di un aborigeno o
di un pellerossa. Non ho nulla da spartire con
l’avidità di
persone che massacrano animali innocenti
sull’altare della pseudoscienza - in realtà del
profitto e del
successo personale - e di persone
che applaudono ed incoraggiano queste tòrme di follia, di
onnipotenza distruttiva. Sono ben altri
i modelli da seguire, i miei idoli. Ecco dunque che gli idoli, lungi
dal cadere, rimangono li, innanzi
ai nostri occhi, vivi e palpitanti in tutta la loro accezione
positiva. Certo,
noi tutti ci sentiamo esposti alla morte e sarei disonesto se
contestassi la seguente frase tratta dal
libro “Stare al mondo”, sempre del professor Natoli:
“In
questo Epicuro aveva ragione: quando moriamo non ci siamo
più. Egli
però sottovalutava quanto la morte pesi nella vita, quanto
l’immagine della fine entri in gioco nell’abituale
scorrere dei
nostri giorni.” Pag. 135
Eppure,
nonostante L’educazione necrofobica che noi tutti abbiamo
ricevuto
Un da bambini, ci rendiamo
perfettamente conto che la Morte non è nè giusta
né ingiusta,
probabilmente triste per il fatto
che ci priva del piacere di vivere assieme alle persone che amiamo,
ma rimane comunque l’unica
conclusione naturale del viaggio che abbiamo iniziato il giorno in
cui abbiamo emesso il nostro
primo vagito.
‘Tutte
le attenzioni che oggi noi diamo al nostro corpo sono il prodotto
assoluto dello spirito: l’igiene, la ginnastica, la cosmesi,
la
dietetica, sono tutti processi di rappresentazioni astratte della
corporeità. Esistono prontuari, trattati di anatomia,
sistemi di
eleganza: il nostro corpo oggi può fare molte più
cose perché
molto di più su di esso si sa. Ma allora non è
più il corpo
naturale, il corpo che viveva 35 anni, che generava fino a 30, non
è
il corpo che periva nelle
epidemie,
che aveva deformazioni e geloni. Il nostro corpo oggi è
oggetto
della gerontologia, contro l’idea di una vecchiaia scomoda.
Ebbene,
tuffo questo è astrazione: non c’è
più un uomo che usa il mezzo,
ma l’uomo è lo stesso mezzo; non
c’è una sostanza che esercita
qualcuno, ma la sostanza è l’esercizio. Terreni,
dunque, sì,
perché non c’è l’altro mondo
non c’è la garanzia divina; ma
non greci. L’onnipotenza quindi non è tanto
l’onnipotenza di me
piccolo che ho la mia precarietà, i miei dolori, i miei
incubi.
L’onnipotenza è lo spazio della rappresentazione.
Tale che ogni
nostro malessere, ogni nostro dolore, sia esso mentale, sia esso
fisico, è immediatamente associato, dal buon senso, a una
terapia.
L.’esistenza, anche quando è segnata dal dolore,
è associata a
una logica di onnipotenza, che è pur sempre umana e che
è la
ragione strumentale diventata fine. lì delirio di
onnipotenza non è
proprio dello scienziato in senso tecnico, in senso pratico; anzi,
costui è convinto che molte cose non si possono fare
perché non si
conoscono: e prudente.”
Pag. 50
Ed
io insisto: terreni e Greci. Come potremmo noi Pagani considerare
scomoda la vecchiaia? La vecchiaia
è una parte fondamentale del ciclo della Natura. Ecco
ritornare
l’idea del ciclo. Contro ogni
tipo di pensiero lineare. Probabilmente
il professore Natoli non afferma che la vecchiaia è scomoda
in
quanto tale, ma che oggi
si vuole vivere una vecchiaia non scomoda a tutti i costi. Ed in che
maniera, vaccinandosi contro
la febbre ed utilizzando il Viagra? In realtà viviamo questi
vecchietti, più che come esseri consapevoli
desiderosi di vivere la propria vecchiaia in maniera dignitosa, come
un coacervo di
schizoidi
schizzati. Non è la strada che ci interessa. Non
è la strada che
percorreremo.
"Per
quanto la scienza sia prudente e sia cosciente di non sapere, pur
tuttavia rimane l’unica dimensione entro cui e pensabile
l’emancipazione. E quindi, nel momento in cui non si
è produttori
specifici di un sapere ma si guarda al mondo secondo un regime di
senso, la pratica concreta lascia il posto al mito. L’unica
cosa
attraverso cui io sortisco risultati viene ipostatizzata nella
possibilità del risultato come tale. La caratteristica del
mito
della scienza è di produrre
costantemente
la sua autodeterminazione. Perché siamo scienziati e non
religiosi?
Perché la scienza non ci darà tutto,
però fondamentalmente è la
via regia per camminare nel mondo, per sapere le cose. Non è
l’onnipotenza, ma è la ragione condivisa
attraverso cui ci è
possibile ottenere quel tanto di potenza che ci è possibile.
Quindi
la prospettiva tecnologica diventa un quadro conclusivo (nessuna cosa
può essere altro che tecnica). In questo quadro conclusivo
è
compresa
la costante autodemitizzazione, che stabilizza il quadro stesso
perché vi include anche la possibilità degli
insuccessi. Su questo
si sono fondate tutte le ideologie del progresso.” Pagg. 50-51
Ma
questa è un’emancipazione che non
c’interessa! Non perché ci
scagliamo contro la tecnica per poter
rimanere fedeli ad un Paganesimo anacronistico, ma perché
questo
tipo di emancipazione porta
alla sofferenza. E non ci può essere emancipazione se un
solo essere
vivente è costretto a soffrire
per potercela donare. Chi mai potrà decidere di utilizzare
un’invenzione che può provocare il
cancro alle persone che gli sono vicine? O all’ambiente in
cui
vive? Questa tecnica invadente, con la
morte nel cuore, che cancella tutto ciò che può
esserle di ostacolo
senza remora alcuna è una tecnica
diabolica che NON vogliamo. E’ vero: nonostante tutti i suoi
sforzi
l’ateismo non è mai riuscito
ad annullare la religione. C’è riuscita la
tecnica. Eppure noi
questa tecnica non possiamo né
dobbiamo
accettarla.
“La
caratteristica di questo neopaganesimo è data dal fatto che
noi
siamo ridivenuti terreni per due ragioni di fondo. Una
ragione è quella della necrosi di Dio. La necrosi non
è solo morte,
ma disfacimento, è il processo del diventare altro.
Ma
- secondo - siamo tornati alla terra perché questo processo
di
astrazione che ho analizzato ce l’ha resa complessivamente
più
comoda. L’elemento catastrofale di alcuni ecologi (manca
l’acqua,
si sono inquinate le fonti, tutto è tossico,
l’apocalisse!)
dimentica che la vita media dell’uomo si è portata
attorno ai
70-75 anni, che non ci si avvelena alle fonti perché si
controlla lo
stato di potabilità delle acque, che non si prende la
polmonite
perché c’è l’acqua calda.
(....)
Noi
ci possiamo permettere il lusso della critica perché abbiamo
appreso
il benessere. Gli ecologi hanno le loro ragioni;
però
è certo che, rispetto alla situazione in cui
l’uomo si trovava in
passato, la tecoologizzazione gli ha permesso di crescere come
sistema di prestazioni, di essere svincolato dalla
necessità, di
fare un po’ il dio. Lo sviluppo della tecnica è
stato una
condizione di libertà, tale che tutto sommato
l’uomo comincia a
star bene sulla terra e può quindi conciliarsi con
la terra: Pagg. 52-53
La
vita si è prolungata rispetto
all’antichità e molte malattie sono
state debellate. Ma ne sono sorte di
nuove, sconosciute agli antichi. E tante sono scomparse, più
che per
i progressi della tecnica, per i
progressi dell’igiene. La tecnologizzazione ci ha permesso di
crescere, ma fin dove siamo arrivati?
Siamo
cresciuti talmente tanto che abbiamo finito con il perdere noi
stessi, fino ad un punto che gli Antichi
non avrebbero mai potuto raggiungere perché la loro
educazione
glielo impediva. La Hybris,
uno degli insegnamenti base dell’antica Faideia, era
lì, a
rammentare all’essere umano a cosa
sarebbe andato incontro se avesse oltrepassato certi limiti. Da quasi
duemila anni la Hybris tace.
E la mucca pazza cancella una parte di vite, l’inquinamento
un’altra, la velocità delle
auto un’altra
ancora. lì governo de’ paesi che
“contano” si riuniscono per
cercare di raddrizzare una situazione
drammatica, ma non riescono a mettersi d’accordo su nulla non
solo
per un pugno di dollari,
ma soprattutto per il fatto che la Hybris tace imbavagliata. Tutto
sommato sulla terra si vive
bene,
peccato che fra poco non ci si potrà più vivere
affatto. Tucidide
ci indica chiaramente il destino
de’ Greci nel momento in cui voltano le spalle alla Hybris.
Temo
che una sciagura analoga possa
accadere anche alla nostra società.
Certo,
per chi ha sempre considerato la Natura un luogo ostile pieno di
pericoli e disertata da Dio la riconciliazione
con essa non poteva che avvenire attraverso il progresso della
tecnica. La
tecnica ha addomesticato la Natura, l’ha fatta genuflettere
innanzi
alle nostre esigenze ed ai nostri
desideri, anche quelli più futili.
Dunque
sulla terra viviamo proprio bene e da qui non ce ne vorremmo
più
andare. Per
una persona immersa negli agii e nei comforts come
il
sottoscritto e che utilizza le invenzioni della
tecnica per risolvere la maggior parte de’ suoi problemi
può
sembrare un discorso falso e di comodo,
eppure considererò sempre mostruosa l’idea di
riconciliarci con la
natura solo nel momento
in cui riesco a piegarla a me. Non solo perché sulla terra
oggi si
commettono atti efferati,
ma
perché tutto ciò viene fatto con un gesto di
prepotenza, di
prevaricazione. Tutte cose che, lungi dal
farci vivere in maniera dignitosa, ci fanno vivere con un senso di
ansia, di angoscia inconscia.
Insomma,
per dirla con due parole, ci riconcilieremmo volentieri con la nostra
Natura - dopo tanti
secoli
- anche se non esistesse l’acqua calda.
“Ma
perché allora neopagani senza tragedia? Perché in
questo tipo di
organizzazione la tecnica ha realizzato un fatto decisivo e
importante: ha separato l’immediatezza del dolore
dall’immediatezza
della vita. La tecnica ha la possibilità di regolare le
soglie del
dolore, sia come soglie interne della percezione (hai un dolore,
prendi una pillola e scompare) sia come soglie della sua apparizione
sociale, perché sotto il segno della tecnica diventa quasi
un
obbligo morale cedere il sofferente
al competente: il che equivale, di fatto, a disfarsi del sofferente.
Il dolore non s’incontra più per via come il
lebbroso, non si
trova a casa quando si torna, con il lamento del parente nel letto:
lo si va a trovare in ospedale; e più gli ospedali sono
organizzati,
meno questi malati si vedono. L’elemento della convivenza con
il
dolore è deperito, la tecnica ci ha espropriato della
visione della
sofferenza, con la giustificazione che meglio a si può
curare. Ma
intanto, quando il malato appare, sparisce il vivente:
l’umano è
ceduto, è istituzionalizzato come malato. E quindi, in
quanto
istituzionalizzato
come malato, diventa innocuo. Soltanto attraverso La tecnica
è stato
possibile regolare la soglia di apparizione del dolore dentro di
sé,
come percezione della sofferenza, e la soglia di apparizione sociale
del dolore, che è ancora più pericolosa. Ecco
perché non siamo
tragici: perché, mentre l’uomo tragico emergeva
dalla sofferenza,
alzava la testa e lo sguardo carico del peso delle sue ferite, si
fabbricava nel dolore, noi invece siamo più amanti della
terra
perché
la terra è stata sollevata dal dolore. Quindi siamo pagani
in quanto
terreni, ma non più tragici, perché il corpo a
corpo con la
sofferenza noi oggi non lo sapremmo reggere più. Abbiamo
bisogno
dell’astrazione epocale della
tecnica.” Pagg.
53-54
Certo,
l’elemento del tragico è perduto per sempre. E qui
c’è poco da
tornare alla grecità. Eppure, al di
là di tutto, non potremmo mai sabotare il rapporto con il
nostro
corpo attraverso la farmacologia.
Il
corpo ci comunica grandi cose quando si ammala, sarebbe
controproducente metterlo a tacere con una
pillola. A questo rapporto non intendiamo rinunciare. Al nostro corpo
che si ammala perché desideroso
di fermarsi un attimo per riposare non possiamo rispondere con una
terapia d’urto in
grado
di rimetterci in piedi in poche ore. La possibilità di
schiacciare
un bottone per ricevere il farmaco
adatto ad ogni tipo di evenienza è una
possibilità mostruosa. Ci
spersonalizza, ci rende robots
in grado di affrontare artificialmente ogni tipo di situazione
penosa. Non si tratta di un’etica
della
sofferenza in quanto tale, ma di un’etica naturale, che ci
riconcilii con il nostro
essere “naturali”.
Condizione che si cerca di fuggire il più possibile, anche
attraverso i farmaci. Ritornando alla
ciclicità de’ nostri padri cade anche il bisogno
di salvezza.
L’unica cosa che va veramente
salvata
e salvaguardata è l’ambiente, la Natura in cui noi
tutti viviamo,
lì ciclo estingue il bisogno di
salvezza perché ci restituisce quello che siamo, esseri
viventi con
la stessa dignità degli altri esseri
viventi che ci circondano. In questa configurazione la tecnica
può
ben poco. Dobbiamo
sviluppare
un più ampio senso di dignità e di
spiritualità, altro che
tecnica!
“Tutte
queste cose lasciano al fondo un bisogno di salvezza, di una salvezza
che non può risiedere soltanto in noi stessi
(perché altrimenti
saremmo tragici). Un bisogno di salvezza complicato dal fatto che
c’è
stata una tradizione in cui questa salvezza è stata
annunciata e
promessa. Allora abbiamo a che fare con la modificazione del modello
escatologico: un bisogno di salvezza senza fede.
C’è il desiderio
di un mondo liberato dal dolore, ma non c’è
più un Dio che
garantisca questo, non c’è un garante assoluto.
Quindi ancora una
volta torna la tecnica come luogo della propria salvezza: quello che
non può fare Dio, deve essere costruito dall’uomo
stesso. Torna la
figura mitica della tecnica. Ma suo carattere distintivo è
che,
assumendo la tecnica la dimensione dell’onnipotenza, essa si
profila con una grandissima ambiguità: perché
è vero che è
l’unica dimensione entro cui l’uomo si
può salvare, o può
pensare la propria salvezza,
ma
non essendoci un garante assoluto, la tecnica può anche
essere la
possibilità dell’orrore. Cioè
può scatenare entro di sé delle
contro-formalità che, lungi dal salvare, distruggono il
mondo. Ma
distruggono il mondo così come lo distruggerebbe Dio,
perché ormai
la tecnica ha la possibilità di far sparire la terra. Nella
storia
mai l’uomo ha avuto La possibilità di far sparire
la terra; poteva
far apparire questo e sparire quello, ma non poteva far tramontare la
terra.
In
questa oscillazione tra salvezza e distruzione è il destino
della
tecnica: destino che ci fa lontanissimi dai greci: neopagani
significa allora, essere diversamente pagani.” Pagg. 56-57
E
invece, se in questa drammatica oscillazione vogliamo provare ad
andare in direzione della soluzione
dobbiamo rifarci Greci, diversi dagli antichi Greci, ma pur sempre
Greci. Non vediamo altra
soluzione se non quella di ripensare il nostro rapporto con la terra
diversamente da come lo vive
“l’uomo moderno”. Riacquistare le basi
dell’antica Paideia ed
utilizzarne i precetti, il primo de’
quali quello della Hybris. Perché, al di là di
quanto la tecnica
afferma e ci ha insegnato in questi ultimi
secoli, possiamo tornare a vedere il mondo che ci circonda con gli
occhi stupiti de’ Greci.
Perché
la terra possa tornare ad essere Dea. Pagani
si può essere.
Pagani
- in taluni casi - si deve essere.
“La
grecità fa da specchio al presente e proprio per questo ci
restituisce qualcosa che non le appartiene. Nel contempo,
però, lo
specchio diviene effettivamente le immagini che rispecchia. Ora se i
greci ci fanno da specchio è verosimile che rispecchiandoci
in essi
noi riusciremo a sapere di loro molto di più di quanto loro
sapessero di sé. In questo gioco di proiezioni
i greci sono resi diversi pur permanendo gli sterni e chi in essi si
rispecchia si rende loro intimo pur
permanendo
diverso. L’identificazione con un qualsiasi modello reinventa
ciò
con cui si identifica e in questo senso essa è atto
assolutamente
originale, almeno nel senso in cui ne parla Nietzsche:
«Originale.
Non il vedere per primi qualcosa di nuovo, bensì il vedere
come
nuovo l’antico, ciò che è
già anticamente conosciuto e che è da
tutti visto e trascurato, contraddistingue le menti veramente
originali».” Pag. 60
Ma
in definitiva, cos’hanno gli antichi Greci da insegnarci dopo
quasi
duemila anni che sono scomparsi?
Com’è solo lontanamente pensabile la remotissima
possibilità di
condurre la propria vita
come la conducevano loro?
Ciò
che l’antica Grecia rappresenta per noi è un
immenso laboratorio
di sperimentazione. Un luogo che
contiene in nuce tutto quanto l’essere umano ha esperito fino
adesso. Ha ragione il mio amico Oreste
quando dice che i vegetariani traggono dal Paganesimo solo
ciò che a
loro fa comodo,
eppure
il vegetarianesimo dell’antichità è una
delle tante possibilità
che si pongono innanzi a noi.
Non
si tratta di sedersi a tavolino, scegliere una delle tante culture
dell’antichità e cercare ciò
che più
si avvicina ai nostri ideali di persone ormai divenute adulte, ognuna
con la propria ideologia politica
e culturale. Non avremmo mai potuto scegliere i Greci perché
in
realtà sono loro ad aver scelto
noi fin da quando siamo nati. Ed Athene, nello specifico. Athene ci
ha scelti e noi non abbiamo
potuto - né abbiamo voluto - sottrarci alla sua chiamata.
Così come
Omero rappresentava il
punto comune per tutti gli abitanti della Grecia e delle sue colonie,
dalle colonne di Eracle al mar Nero,
così Athene rappresenta prima che un luogo fisico e storico,
un
luogo mentale che risiede in ognuno
di noi. Questa è la nostra cultura, questa è la
nostra religione.
Per noi Athene non è un
luogo
meramente culturale da cui attingere per un nostro hobby o per
passare il tempo o per impiegare
le nostre energie in un progetto culturale, Athene è molto
di più.
E’ la nostra vita. Certo, nel
momento in cui ci identifichiamo con lei creiamo qualcosa di nuovo,
apportiamo la nostra sensibilità
di persone calate nel XXI secolo. Elaboriamo nuove forme, nuovi
modelli, ma ciò che le anima
è quanto di più antico ci possa essere. Non
consideriamo anti-greco
il nostro vegetarianesimo od
il nostro femminismo, e non solo perché questi modelli sono
apparsi
timidamente anche allora.
Eventualmente
diversamente Greco, ma non anti-greco. Ed anche il nostro
libertarismo, il nostro anelito
alla libertà è già stato analizzato da
Aristoteles e neanche in
termini negativi. Per quanti sforzi
facciamo non riusciamo assolutamente ad inventare qualcosa di cui i
Greci non avessero già
parlato,
analizzato, elaborato. Certo, abbiamo perduto il senso del tragico,
eppure non riusciamo ad essere
non greci.
Non
si tratta, quindi, di una moda culturale come certe
pseudo-antropologhe potrebbero affermare. Le
mode sono effimere, lasciano il tempo che trovano, ciò che
si è,
invece, lo si è per sempre. La
Grecità è stata, e sempre sarà,
un’esperienza memorabile.
I
libri del professore Salvatore Natoli che ho consultato sono:
“I
Neopagani”. Ed. Il Saggiatore
“Stare
al mondo”. Ed. Feltrinelli
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