Paganesimo approfondimenti

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Talos Dioscuri Poseidon Anphitrite Nereide

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Di: Francesco Tuccia

Che cos’è il Paganesimo?

Come sovente avviene in articoli di questo tipo è necessario iniziare ab ovo. La parola “Paganesimo” deriva dalla parola latina “Pagus” da cui Paganus. abitante del Pagus, della campagna. Più volte, nella storia di questa travagliata umanità, si sono indicati, in maniera spregiativa, de’ movimenti sorti all’improvviso o antichi di secoli improvvisamente spodestati dalla cittadella culturale da un altro movimento che cresceva lentamente, ma inesorabilmente. 
Come esempi paradigmatici potremmo citare, nel primo caso, il movimento “decadentista” in ambito culturale, quello “fauvista” in ambito artistico, quello “anarchico” in ambito politico, quello “punk” in ambito sociale, ecc., tutti movimenti con una carica eversiva intrinseca che, sorti all’improvviso, generando angoscia con il proprio potenziale minaccioso, si ponevano contro l’ordine e la “norma” allora vigente, e finivano per essere considerati in un’ottica negativa e di conseguenza qualificati con titoli infamanti. 
Invece nel secondo caso una tradizione millenaria veniva lentamente corrosa alle fondamenta da un altro movimento e, tolta impietosamente dall’altare su cui era collocata da secoli, trascinata violentemente ed in maniera assolutamente arbitraria nell’area dell’immoralità, del vizio e del male, in poche parole nell’area del peccato. Anche in questo caso il movimento che, salvo poche eccezioni, aveva retto per secoli le società antiche, veniva giudicato privo di ogni morale e 
connotato in maniera negativa. 
La parola “Paganesimo” ffi coniata dai cristiani in evidente dispregio delle persone, della cultura e dell’arte che tutto ad un tratto “scopriva” di essere pagana. Eh si, perché la cosa ridicola, e a un tempo drammatica, è il fatto che le persone che noi oggi indichiamo con il termine “Pagane” non sapevano affatto di esserlo.
I cristiani scelsero il vocabolo “Paganesimo” per indicare le persone che continuavano a seguire l’Antica Religione perché constatarono che, a differenza degli abitanti della città, le persone che abitavano in campagna erano riluttanti a convertirsi verso quella che sarebbe diventata la religione di stato. Si tratta dunque di un motivo oggettivo a generare questo nuovo vocabolo: le persone che abitavano nel pagus, a differenza di quelle che abitavano nelle città, continuavano a seguire la propria religione, la religione degli antenati, una religione etnica. Effettivamente anche durante il medioevo alcuni abitanti delle campagne continuarono a svolgere rituali in onore degli antichi Dei e delle antiche Dee affinché il loro raccolto e le loro attività andassero a buon fine. 
Però dobbiamo constatare un’altra cosa, e cioè che le religioni pagane hanno tutte quantomeno una 
cosa in comune, e cioè il fatto che sono religioni immanenti, al contrario delle religioni monoteistiche che sono trascendenti. Che cosa vuol dire? Che mentre nelle religioni monoteistiche Dio sussiste indipendentemente dalla realtà, nelle religioni pagane Dio è coessenziale alla realtà. 
Quindi ta parola “Paganesimo”, nata per de’ motivi ben precisi, nel corso del tempo, come spesso avviene, ha mutato il suo significato ed oggi per “Paganesimo” in genere s’intende una religione molto vicina all’ambiente ed alla natura. Questo è senz’altro vero, ma starei ben attento a non 
cadere in facili schematismi binari del tipo: il Pagano, in quanto persona attenta alle esigenze dell’ambiente in cui vive non può non essere ecologista ed il monoteista, in quanto proiettato verso un Dio trascendente che NON abita la natura, provando scarso interesse nei suoi confronti, sovente 
la violenta. In realtà sappiamo bene che ci sono (e ci sono stati nell’antichità) Pagani a cui non interessa nulla dell’ecologia e ci sono persone monoteiste attente a non avvelenare l’ambiente in cui vivono. Se poi aggiungiamo che il termine “Ecologia” è un termine coniato ai nostri tempi, 
inesistente nell’antichità, ci rendiamo conto che non ha alcun senso parlare di “Ecologia Pagana”.
Un Pagano per essere tale non ha bisogno di essere ecologista ed un ecologista - è evidente - non ha nulla a che vedere con la cultura Pagana antica o moderna. Fatta questa doverosa premessa vorrei parlare del MIO Paganesimo. 
Non è facile parlare del Paganesimo. Volendo usare un’espressione vacua e sfruttatissima, il Paganesimo è tutto ed il contrario di tutto. Con questo voglio dire che il Paganesimo è una religione talmente varia, che difficilmente si possono trovare due Pagani con le stesse idee sulla religione - ci 
sono Pagani religiosi e Pagani atei, Pagani idolatri e Pagani secolarizzati, ecc. - sull’esistenza degli Dei e delle Dee - c’è chi non crede affatto all’esistenza degli Dei e delle Dee, chi crede che Essi/e siano Antropomorfi/e, chi Li/e considera delle Entità Archetipiche, delle Potenze, ecc. - 
sull’escatologia - c’è chi crede nella reincamazione, chi crede che dopo la morte non ci sia nulla, chi crede che dopo la morte ci siano de’ luoghi ben definiti, ecc. Io parlerà dunque della mia visione del Paganesimo, accennando ai temi testé rammentati poiché non è questa la sede per trattare 
diffusamente di argomenti quali la natura degli Dei e delle Dee, l’etica pagana, ecc., tutti argomenti a cui vorremmo dedicare in flituro i nostri quadernetti.

Per poter dire chiaramente la mia visione del Paganesimo non posso non riportare ampi stralci dal libro che più di ogni altro mi ha stimolato in questi ultimi tempi, “I nuovi pagani” del filosofo  Salvatore Natoli.
Premetto che non è mia intenzione cercare di confutare le posizioni del professor Natoli, non solo perché le condivido in larga parte, ma anche e soprattutto perché sono tutte Legittime ed assolutamente non suscettibili di confutazione. Quindi io proporrà un mio modello di Paganesimo, 
diverso, forse opposto al suo, proponendo una sorta di aporia in cui due posizioni egualmente valide - almeno spero per quanto riguarda la mia - convivono serenamente senza annullarsi e senza che una elimini l’altra. 
Innanzitutto è emblematico il diverso titolo delle nostre pubblicazioni, da una parte “I nuovi pagani” e dall’altra, “Paganesimo”. La questione può sembrare peregrina, in realtà non la è affatto. 
Il professor Natoli fa una chiara e netta distinzione fra Paganesimo e Neopaganesimo.
lì Paganesimo è una cosa, il Neopaganesimo un’altra. 
Egli mette subito in chiaro che noi Pagani, in quanto Pagani, non proveniamo da alcuna discendenza:

Le forme di paganità che appaiono nella società contemporanea sono del tutto dissimili da quel paganesimo originario; e anzi, assumendo i greci come il luogo della paganità, si può e si deve dire che ai greci non si torna. Noi non apparteniamo più al continuum della paganità, ma la paganità è in un certo senso il frutto di un’appropriazione, di una decisione, di uno stile, di una sagoma che ci si dà: non è il risultato immediato di un vissuto, ma in un certo senso 
diventa una forma di opzione.” Pag. 21

Come vedremo fra poco, il Cristianesimo non ha permesso al Paganesimo di potersi conservare e rimanere immutato fino ad oggi e la tecnica ci impedisce di essere nuovamente Paganh La cifra che contraddistingueva il Pagano dell’antichità era la coscienza del dolore che egli aveva e 
che ora non ha, né potrà avere più, eventualità questa che gli impedisce di essere Pagano. Dunque non Pagani, ma Neopagani. Individui, cioè, che possono scegliere alcuni modelli dell’antichità, ma a cui è preclusa la possibilità di ritornarvi:

“(...) il greco (...) vede dinanzi a sé - e ne ha chiara coscienza - la dimensione eversiva dell’esposizione alla contingenza in cui l’uomo è posto, dell’orrore. Proprio perché ha un senso profondo dell’orrore e della crudeltà, e non vuole essere fagocitato, assorbito, rapito da questa potenza, deve avere una risposta altrettanto forte rispetto a ciò che lo vuole distruggere; ecco perché nel dolore bisogna essere più duri del proprio dolore. Per legge d’eleganza, per stile
d’esistenza, per dovere di forma.” Pag. 28

Questa era la base della Paganità dell’antica Grecia. Da qui è possibile capire il motivo per cui la nostra antica civiltà era così ossessionata dall’estetica al punto da raggiungere la perfezione nelle arti. Così continua il prof. Natoli:

“La dimensione eroica dell’esistenza è incentrata fondamentalmente sull’idea della perfezione di sé. Come perfezione finita, certo; però con il massimo da dover trarre da sé per configurare la propria potenza”. Pag. 28

Potenza non fine a sé stessa dunque, ma unico mezzo per poter vivere innanzi alla continua minaccia delle insidie del mondo in cui viviamo. 

“La statuaria greca non è un fenomeno estetico, è una metafisica: non vita eterna; vita lunga. Questa è la configurazione dell’eroe. Ma quest’attenzione alla propria forma non deve diventare tracotanza, non deve diventare infinitizzazione di se, perché la perfezione della forma non toglie la necessità della stia finitezza” Pag. 28

Dunque finitezza dell’essere umano, e L’uomo greco ne è cosciente:

“Il greco ha terrore dinanzi alla contingenza, dinanzi all’esposizione: il balzo della fiera, l’agguato del nemico, la malattia, le insidie della natura, le avversità dell’ambiente, le aporie. Non riuscire qui e ora significa semplicemente fallire. E proprio perché il greco ha il senso della spietatezza della natura, ha anche il senso della differenza tra gli uomini, della disuguaglianza. Non tutti hanno una potenza sufficiente per vincere, esistono gli sconfitti. Ma i vincitori non hanno vinto una volta per sempre; anche chi vince è esposto alla possibilità di perdere, anzi, quando un dio vuole rovinare un uomo, lo illude della sua potenza. fi vincitore, perché la vittoria sia mantenuta, è necessario che sia collegato al suo senso della esposizione, alla sua possibilità di morte.” Pagg. 29-30

Oggi la coscienza del dolore propria degli antichi Greci è andata perduta. La tecnica ci ha fornito strumenti formidabili per sconfiggere definitivamente il dolore:

“Tutto il modo moderno di pensare la prevenzione sotto tutti gli aspetti è soprattutto un lavoro per facilitare le condizioni dell’esistenza.” Pag. 34

Non posso che sottoscrivere tutto quello che afferma il prof. Natoli, però poi fa un’interessante analisi che, a mio parere, lungi dall’allontanarci, ci avvicina irrimediabilmente al Paganesimo:

“Nel greco la dominante è la crudeltà del destino. L’uomo sbaglia perché è accecato. L’intellettualismo socratico svilupperà in modo radicale quest’aspetto, quando dirà che se l’uomo sapesse non peccherebbe. In questa convinzione socratica riecheggia il grido arcaico che, se si pecca, si pecca perché si è accecati. Siamo in una dimensione completamente opposta a quella ebraico-cristiana. Ha ragione Creonte, in quanto capo di stato, a impedire che Antigone
seppellisca il fratello; ha ragione Antigone, in quanto pieeas familiare, a voler seppellire il fratello. Nel dilemma, la ragione e il torto non sono tagliabili. La tragedia non finisce mai, è sempre nel suo inc4nit. Stare nel tragico non vuol dire sanare la contraddizione, ma essere duri tanto quanto basta per tenere uno spazio nell’aporia, saper giocare nel dilemma. Quindi necessariamente il tragico doveva diventare la dialettica della filosofia. La filosofia come tecnica dei
sistemi, come terapia: questo è il profilo della paganità.
Nel neopaganesimo molti aspetti saranno perduti, ma molte vestigia, molti emblemi, molti profili vogliono essere riproposti. Senza facile vita, però, perché a metà fra quel mondo e il nostro stanno due eventi inarrestabili: il cristianesimo prima e la tecnica dopo. I greci si sognano, ma ai greci non si torna.” Pag. 35

Eppure il prof. Natoli ha perfettamente delineato il nostro modus vivendi. Sono molti gli aspetti che ci dividono dalla cultura ebraico-cristiana, ma l’aspetto che più di ogni altro si configura alla stregua di un vero e proprio abisso fta noi e loro è proprio il dilemma che c’impedisce di distinguere la ragione dal torto. Proprio perché da sempre consideriamo la vita un coacervo in cui si mescolano milioni di aspetti uguali e contrari, in cui i confini del torto e della ragione, lungi dall’essere robusti e ben definiti sono elastici in modo da spezzarsi spesso in più punti, oppure tali da dilatarsi e restringersi continuamente, talvolta inglobandosi fra di loro. E’ proprio questo nostro rifiuto inconscio di una vita miseramente binaria fondata su questo o su quel punto di vista che ci 
porta ad essere meravigliosamente Pagani. 
Che cosa è giusto? Che cosa non lo è? ,Chi ha ragione? Chi ha torto? Il nostro cuore, da sempre, batte dalla parte di Antigone, ma che sofferenza pensare che anche Creonte aveva le sue ragioni! Purtroppo avere la verità in tasca non è una nostra prerogativa. Dico “purtroppo” perché sarebbe più facile vivere cercando risposte già preconfezionate nei libri sacri o nelle parole de’ vari profeti. Nulla è eterno, nulla è indiscutibile, tutto cambia. “Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”, ci suggerisce Eraclito. 
Tutto questo ci porta ad avere un grande senso di responsabilità. Ogni qualvolta ci troviamo innanzi ad una diatriba partono, in noi, riflessioni che cercano di tenere in considerazione i vari punti di vista. E poi tutta una serie di ragioni di ordine storico, geografico, scientifico, ecc. Già, la vita non è affatto semplice. Che cosa è secondo Natura? Che cosa è contro Natura? Quali sono i confini fra uomo e donna? E inoltre, che cos’è un uomo? Che cos’è una donna? Non esiste nulla di sicuro, di definitivo. 
In genere si dice che il Paganesimo è morto nel IV-V secolo ev. con la distruzione di tutti i templi e l’eliminazione fisica o la conversione (forzata aggiungerei io) di tutti i sacerdoti Pagani e di tutte le sacerdotesse Pagane. Il Paganesimo è terminato ed è stato sostituito dal Cristianesimo. Unica civiltà non cristiana che si è mantenuta, da quel tempo, fino ad oggi è quella ebraica. Al di là del fatto che culti e rituali si sono mantenuti per altri secoli soprattutto nelle campagne per cui io dilaterei il termine che indica la fine tout-court del Paganesimo, se è vero che la maggior parte del nostro patrimonio culturale è andato perduto per sempre, è anche vero che nei secoli la nostra essenza di Pagani si è perfettamente mantenuta. Scrive infatti il prof. Natoli:

“La grecità in un certo senso è durata anche nei secoli cristiani: C’è stata la paganirà latente. Con esplosioni, con curve alte, che sono note nella storiografia: basti pensare al Rinascimento, al Neoclassicismo e, per larghi aspetti, al Romanticismo, dove la paganità si compone con una dissoluzione-immanentizzazione dell’elemento cristiano. Il Romanticismo è questa strana mescolanza di temi pagani ereditati dal Settecento che si compongono con un cristianesimo diluito, immanentizzato, paganizzato a suo modo. Basti pensare al culto della Madonna in personaggi come Novalis, basti pensare all’eterno femminino goethiano: un cristianesimo che disperde la sua dogmatica per diventare religione naturale e si mescola con forme di neopaganesimo, dove tutte e due le cose cominciano a disfarsi, a deformarsi, a creare un altro impasto.” Pag.36

Il Cristianesimo, dicevamo, ha lavorato al punto da annientare il Paganesimo. Ma non per il fatto che i saperi legati alla nostra religione sono andati perduti, bensì per il fatto che ha iniettato nell’essere umano il disgusto verso la sofferenza che, come si è visto, era la base della Paganità 
antica. Quindi non è la scomparsa delle formule “magiche” per celebrare questo o quel rito ad averci privato della possibilità di poter essere Pagani oggi. Infatti:

“Tutto ciò che viene dalle mani di Dio è buono, tutto ciò che è toccato dal peccato è negativo. La teologia cristiana ha giocato entro questi due registri: chi guardava alla creazione tendeva a valorizzare il cosiddetto uomo naturale, chi invece guardava alla potenza dissolutrice del peccato era più attento all’elemento di miseria, di impotenza, di incapacità di essere buoni senza un intervento di Dio. Il cristianesimo ha inoculato il germe della salvezza assoluta da un lato, ma 
anche della vanità di questo mondo dall’altro. Anzi questo mondo può essere sentito come vano se e solo se si suppone possibile un mondo senza dolore. Un greco non avrebbe mai potuto concepire una vita senza il dolore. Ecco perché bisognava essere più duri del dolore. Ecco perché bisognava ribadire la propria forma. E’ il cristianesimo che dà il segno di un mondo senza sofferenza; e allora in quella luce: in quella prospettiva, questo mondo è vanità: in hac lacrimarum valle. Questo stato d’animo è entrato nell’Occidente con il progressivo crescere della potenza del 
cristianesimo, e quindi la dimensione di vanità, questo velo d’ombra, si è adagiato su tutta la terra. Anche chi era in una dimensione pagana sentiva questo velo d’ombra: è vero nel mondo c’è dolore, è vero nel mondo c’è sofferenza. 
Gettandovisi contro, il cristianesimo ha talmente fatto vedere la miseria da avere indebolito l’uomo nei suoi confronti. 
Nel contempo ha fatto vedere all’uomo un esito così bello, che anche chi è pagano e non crede dice: «Sarebbe bello un mondo senza dolore!». Il cristianesimo ha alterato l’anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole che ci sia.
La vanità dell’esistenza pesa in un modo tremendo. Nell’uomo greco anche in mezzo al dolore c’era sempre l’amore per la terra. Nel cristianesimo si sviluppa questo germe profondo di disamoramento. La vita etica non può sciogliersi dalla malinconia. Il profilo della malinconia è l’ombra elegante che il cristianesimo disegna nel suo paganesimo interno. Nei secoli cristiani anche chi è pagano è malinconico.” Pagg. 37-38.

Eppure, nonostante l’anima Pagana sia stata alterata dal Cristianesimo questa, silenziosamente, s’inserisce nell’anima cristiana che pensava di averla definitivamente annullata:

“Ma questa componente di malinconia è legata all’altro momento pagano coltivato dallo stesso cristianesimo: la bontà della creazione. In questo senso c’è una specie di continuità: l’atteggiamento positivo che il pagano aveva nei confronti della terra è ribadito dalla bontà della creazione. Nonostante la vanità del tutto, c’è nella natura qualche cosa di buono da coltivare, coltivando con essa la propria misura. Noi abbiamo elementi di neopaganesimo incentrato 
fondamentalmente sulle categorie della formazione personale, della cura di sé, elementi che vediamo presenti in modo moderazione. La moderazione ha un taglio dichiaratamente epicureo: godere con misura. Non asservirsi alla passione ma trovare la misura significa sviluppare anche il proprio aspetto eroico, il proprio aspetto di resistenza, perché per non cedere alla passione bisogna avere anche una capacità di autodominio. di astrazione di sé rispetto alla dolcezza 
dell’esistenza che può corrompere. Abbiamo elementi di epicureismo legati ai gusto e al piacere delle cose nella loro immediatezza: siano essi i piaceri della carne, siano essi i gusti dell’intelligenza o la dolcezza dei sensi. Tutte le corti rinascimentali hanno questi elementi. E questi sono i modi in cui ci si stacca dalla malinconia e, seppure con un’ombra di caducità, non si dimette la possibilità del piacere. (....) Questa vena, che mescola stoicismo ed epicureismo a un tempo, crescerà nel corso della dissoluzione stessa del cristianesimo. E comunque una vena minoritaria, una vena 
élitaria; lo sviluppo e l’incremento di questa linea suppone che la cristianità si restringa. Questa attenzione ai sentimenti dell’io, questo elemento di piacere segnato dalla vanità, questo elemento di senso della terra legato pur sempre al sogno di una proiezione futura, noi lo vedremo per esempio nei movimenti libertini.” Pagg. 38-39

Infine, tornando a noi, tornando all’oggi:

“(...) non essendoci più un fondamento indefettibile di verità, ci sono le possibilità di una ripresa di forme di paganità. Si è restituiti di nuovo alla terra, però si è restituiti in un modo completamente diverso da quello del mondo pagano. 
Mentre nel mondo pagano si apparteneva alla terra e al suo ciclo, qui si è restituiti alla terra che però non ha più cicli. Si torna spaesati alla terra. E si torna spaesati alla terra perché si è caduti dal cielo: il cristianesimo ha reso impossibile il paganesimo anche nel ritorno alla terra.” Pag. 45

Senz’altro il professor Natoli ha le sue ragioni quando afferma che il Cristianesimo ha reso impossibile il Paganesimo anche nel ritorno alla terra, ma ciò sarebbe vero se noi Pagani tornassimo alla terra guardandola con gli occhi de’ cristiani, In realtà, essendo Pagani, non possiamo non guardare la terra con occhi Pagani, che sono poi i nostri occhi. Non si tratta di avere un comportamento anacronistico a tutti i costi. Noi guardiamo ad una natura fondata sulla ricorrenza. 
Una natura in cui non è impressa alcuna legge assoluta della volontà divina.
Una natura che ci rivela dei cicli, che ci mostra la verità a cui noi ci adeguiamo, una verità a cui noi accediamo in religioso silenzio, senza interferire in alcun modo. Una verità che non consideriamo né buona né cattiva, ma la verità che la natura ci offre. Per noi non esistono brutte stagioni. L'autunno e l'inverno ci sussurrano parole sagge. Ci invitano a raccoglierci ed a meditare, non a disperarci perché d'inverno non si può andare al mare a fare il bagno, per quello ci sarà tempo d'estate. Non è il caso di disperarci perché gli alberi nel giardino assumono la forma di spogli scheletri d'inverno. Ma che, cambiando completamente aspetto durante la primavera quando fioriscono e durante l'estate quando donano frutti, ci rivelano il perpetuo avvicendamento delle stagioni. Abbiamo in orrore le ciliegie in inverno o i mandarini in estate. Rifuggiamo come il peggiore dei mali la tecnica che ci permette di far fiorire il mandorlo in dicembre ed il caco in estate. 
Avremo in orrore qualunque diavoleria avesse il potere di cancellare il freddo e di regalarci una temperatura mite 265 giorni all'anno. Dunque, “Nei secoli cristiani anche chi è pagano è malinconico”.
Anche nel secolo che mi è capitato di vivere il sottoscritto è malinconico. Per il fatto che desidererebbe vivere in un tempo di sola felicità o per il fatto che l'amata Natura è stato affibbiato un ruolo poco ortodosso?
Non riesco a capire il nostro grande poeta Giacomo Leopardi quando considera la Natura “Matrigna” né condivido le opinioni del mio ex insegnante di lettere secondo il quale la Natura è cattiva. Queste considerazioni sono completamente estranee al mio modo di pensare proprio perché ho sempre pensato che la Natura non è né buona né cattiva, ma È ! Non diamo alla Natura un ruolo in base a parametri culturali relativi, talmente relativi da risultare inesistenti.
Voglio provare ad esprimermi con un semplice esempio.
Una decina di anni fa lessi un quotidiano romano la confessione di una ragazza filippina che viveva a Roma da alcuni mesi. Ad un certo punto disse (cito a memoria): “Quando cammino per strada non si gira mai nessun ragazzo a guardarmi. Eppure dal paese dal quale provengo sono considerata una bella ragazza.”
Ecco un esempio banale ma eloquente: chi incolperà questa ragazza se nessun ragazzo italiano si volta a guardarla, la Natura? Od è forse un parametro culturale ad impedire di sentirsi apprezzata nel paese straniero in cui vive? Per quanto riguarda non riesco a concepire nemmeno lontanamente l'idea di una Natura colpevole di qualche cosa. Quindi provo un’assoluta indifferenza verso tutto il lavorio che il Cristianesimo ha fatto alla nostra anima in tutti questi secoli. Ho sempre trovato assurda l’eventualità di vivere in un mondo privo di ogni forma di dolore. E non muoverei un dito per dirigermi verso un’utopia che per me è priva di ogni senso.
Che importa se ci ammaleremo in inverno? Abbiamo in onore i vaccini. Tutto questo proprioperché siamo Pagani. E saremmo Pagani anche se scoprissimo che esiste un Dio onnipotente che regola l’andamento della natura. Noi sempre e solo alla natura ci adegueremo ed ai suoi cicli, non 
muoveremo un solo dito per cambiarla a nostro favore.
Nel paragrafo dedicato al processo di immanentizzazione di Dio il professore Natoli afferma:

“L’esito della secolarizzazione non è il nichilismo, ma può essere la divinizzazione del tutto e quindi, ancora una volta, un paganesimo dopo il cristianesimo; che non è più greco ma può essere ancora pagano.” Pag. 46

“Nella radicalizzazione dell’incarnazione non c’è più l’io-tu, non c’è la relazione dialogica, essenziale a tutta la tradizione ebraico-cristiana, che è prossimità ma anche distanza; al contrario, qui il finito-mondo diventa Dio. Ma quando il mondo diventa Dio si ha da un lato la mondanizzazione dell’infinito, dall’altro l’infinitizzazione del mondo: ecco Giordano Bruno: «Nell’infinito universo e mondi».
Allora la secolarizzazione che procede dalla radicalizzazione dell’incarnazione si sviluppa come tensione interna tra cosmico e a-cosmismo. Una successione di tipo cosmico è una successione che tende a pensare la totalità secondo la prospettiva di un ordine finito, tende a chiudere (il cosmo è la
rappresentazione di un ordine). L’a-cosmismo è la sussistenza di mondi diversi rispetto ai quali non è possibile predisporre una visione cosmica; in sostanza l’infinito non è cosmologizzabile finitisticamente perché qualsiasi cosmologizzazione dell’infinito non è altro che una prospettiva su l’infinito, ma come tale disadeguata rispetto all’attualità dell’infinito. Quindi l’infinito non è un qualcosa che può essere rappresentato (la rappresentazione infatti è una finitizzazione, quindi inadeguata). Al contrario, l’infinito può essere vissuto. Ecco la radicalizzazionedell’incarnazione. Proprio perché tutto è in tutto, e tutto è divino, non c’è più Dio qui che là: in questo istante c’è la totalità del divino, lì divino c’è nell’orrore, il divino c’è nel tremendo. Attingere questa dimensione di infinitizzazione vuol dire appunto superare il dolore nel dolore stesso, hic et nunc; e quindi da questo punto di vista non c’è più bisogno neppure di una salvezza futura.” Pagg. 46-47

“L’esito della secolarizzazione in questo caso non è quello nichilistico del delirio di onnipotenza in cui l’eccesso della produzione di sé divora se stesso, ma è un dire si (l’Amen nietzschiano) all’istante. Se questo è vero, si può trovare una dimensione di neopaganesimo come ruotante intorno a questo doppio polo; il neopaganesimo avviene non soltanto all’interno di un decantarsi di Dio per successione dinastica (fine dell’onnipotenza e autoaffermazione del soggetto) ma 
anche per immedesimazione mondo-Dio. La prima è la linea vincente: è quella dell’uomo che si impadronisce della terra, del progetto uomo che ha come suo oggetto il telos. Mentre per l’antichità ogni progetto umano si inscriveva dentro il telos. cioè dentro la finalità naturale, caratteristica della modernità è che l’uomo vuole e può dominare il telos, creando così una continuità, anzi una indifferenza, tra natura e artificio. Nella visione greca, l’azione dell’uomo non 
può, per quanto potente essa sia, trasformare il sistema della forma. Questo sistema, l’economia della natura, è qualcosa di intrasformabile da parte dell’uomo. L’uomo si può adeguare a essa, la può mantenere, ma il fondo della natura è dall’uomo intrasformabile. Tentare di superare la barriera della natura significa perire. Questa è la struttura del progetto umano, dello scopos. Allora lo scopo umano ha un intento di trasformazione ma tocca un limite, una barriera: l’orde naturalis, il sistema delle forme. 
Con il moderno, con l’onnipotenza, con questo passaggio dinastico da Dio all’uomo, l’uomo non è soltanto colui che deve adeguare l’oggettività delle forme, ma è colui che si pone come suo progetto il dominio del telos. Lo scopo non si rivolge più dentro un telos immodificabile, ma lo scopo dell’uomo è quello di modificare il telos, cioè di abbattere la struttura ciclica della natura, di intaccare l’economia delle forme. Allora l’oggetto della decisione umana non è più
l’insieme delle decisioni limitate entro un ordine immodificabile, ma è la decisione della modificazione dell’ordine. La decisione dell’uomo è di farsi felix atque immortalis, e quindi di trasgredire la barriera del telos e fabbricarsi. Questo induce l’uomo ad avere rispetto alle forme non una struttura di rispecchiamento (riconoscere come funzionano), ma una struttura di creazione, di manipolazione. Nel momento in cui l’uomo produce se stesso, allora diventa creatore delle
forme, e il mondo diventa lo spazio di una sperimentabilità infinita. Oggi si parla di ingegneria genetica, di manipolazione del DNA; oggi un fiore non si sviluppa più secondo il suo ciclo, oggi è modificato nella sua struttura, ma non attraverso l’innesto, bensì attraverso il gigantismo del fiore, il mostruoso. C’è quindi una tendenza marcata all’indifferenza tra natura e artificio. Perciò sorge il problema di stabilire cosa è naturale e cosa non Io è; ma tale dubbio è pensabile soltanto in un progetto in cui lo scopos umano ha come suo oggetto il telos, così che è possibile l’alterazione
della physis. Per l’antico, invece, per quanto alta potesse essere la decisione dell’uomo, la decisione accadeva entro un ciclo immodificabile. Soltanto quando l’uomo si sente Dio, assume a suo progetto la modificazione del telos, diventando signore di una sperimentabilità infinita.” Pagg. 47-48

Non si tratta di demonizzare la tecnica, il nostro desiderio di continuare a scoprire, sapere sempre di più, ecc. La tecnica non è diabolica in sé. Si tratta di ridefinire gli scopi, di ridefinire l’etica che sta alla base delle nostre scelte, e non solo in campo scientifico. Il Panteismo che sta alla base della nostra etica non è un idolo che mette i bastoni fra le ruote della scienza, è un modo di vivere e concepire ciò che ci sta intorno. “La Terra è una Dea” non deve proiettare l’immagine di un difficiante genuflesso innanzi ad un’enorme statua eburnea di una robusta e prosperosa Dea, ma quella di un individuo che vuole vivere in armonia con tutto ciò che lo circonda. 
E torniamo alla questione che abbiamo appena dibattuto. Il fatto che oggi l’essere umano sia in grado di manipolare tutto ciò che gli sta intorno considerando giocattoli nelle sue mani tutti gli esseri viventi non implica che anche noi Pagani la pensiamo automaticamente nella stessa maniera.
A noi non interessa fare i felices atque immortales, felices si, ma non immortales. Aborriamo qualsiasi cosa possa trasgredire la barriera del telos. Aborriamo le diavolerie transgeniche, le manipolazioni del DNA, i trapianti degli organi, ecc. dal momento che le viviamo tutte come violazioni della Natura. Anche qui ci riconosciamo completamente nel modello greco: vogliamo adeguarci alla natura, vivere bene, essere felici, ma non trasformarla. Non aborriamo la tecnica tout-court, non è nostro desiderio andare in giro in chitone e sui carri trainati dai cavalli. Molto semplicemente vogliamo godere delle nuove invenzioni, delle nuove scoperte, senza che queste comportino dolore per la Natura e per gli esseri viventi che ci circondano. D’altronde i Greci stessi 
conoscevano ed utilizzavano una tecnica avanzata, addirittura sconosciuta in certi casi nell’epoca del medioevo.
Guardare dunque la natura con gli occhi de’ Greci.
E giungiamo al punto centrale della distinzione fra Paganesimo e Neopaganesimo.

“(....) il neopaganesimo contemporaneo, che si sviluppa all’interno del processo di secolarizzazione, ha una caratteristica che può essere formulata brevemente in uno schema: abbiamo un paganesimo senza tragedia e un bisogno di salvezza senza fede.” Pagg. 48-49

“(...) Il processo di dominazione, la signoria dell’uomo sul mondo, lo scopos umano che ha come suo oggetto il telos e quindi l’infrazione del ciclo naturale, consiste nello sforzo di rendere lineare la ciclicità. Se lo scopo dell’uomo non è più quello di prendere decisioni entro la stabilità del ciclo naturale ma è quello di avere come oggetto della propria decisione il ciclo, questo significa che il suo scopo è di rendere lineare il ciclo, cioè di spezzare la stabilità della natura, 
e di fabbricarsi così il paradiso. Nel momento in cui l’uomo è l’autore della propria salvezza, ritorna alla terra. 
Ma è definitiva questa formula? Nella società della tecnica non è l’uomo che torna alla terra ma al contrario è la terra che è assegnata alle mani dell’uomo. Ecco perché abbiamo a che fare con un paganesimo del tutto diverso dal paganesimo antico. Non c’è più differenza tra il cielo e la terra, tra questo mondo e l’altro mondo, non c’è più l’esigenza di un garante divino per la propria salvezza; e questo vuol dire che siamo interamente sulla terra. Ma non siamo sulla terra al modo dei mortali (situazione antica); pretendiamo invece di essere sulla terra secondo lo stile degli immortali. Nell’uomo moderno c’è fondamentalmente questa dimensione, che non è individuale e privata (tutti ci sentiamo esposti al dolore, alla morte, all’incertezza), ma si configura piuttosto nell’astrazione del sapere. La grande modificazione, infatti, che avviene nel processo di dominazione sul telos consiste in una progressiva egemonia dello strumento sul manovratore. Se prima la tecnica veniva usata dall’uomo (e l’uomo era quindi il soggetto della trasformazione), ora, nel processo di sofisticazione, io, uomo, divento sempre di più il sistema delle rappresentazioni, perdo la mia unità di sostanza separata per diventare sempre più io stesso schema mentale. L’uomo, nel processo di realizzazione, si astrae nello strumento, che diventa sempre meno materiale e sempre più intellettuale; in questo modo si venrica una smaterializzazione della corporeità.” Pagg. 49-50

Ho già detto che i Pagani non pretendono assolutamente di essere sulla terra allo stile degli immortali. Proprio perché si finirebbe con il perdere l’unico tipo di rapporto che concepiamo con la nostra amata terra. Xenofontes diceva che la terra è una Dea. Dopo quasi tremila anni noi Pagani diciamo la stessa identica cosa. Sicuramente il nostro modus vivendi in larga parte è cambiato, ma non il nostro rapporto nei confronti della Physis. Due millenni non passano invano, cambiano molte percezioni, ma l’anima, l’ambito spirituale, rimangono inalterati. La percezione che abbiamo della terra ed il sentimento che nutriamo nei suoi confronti è identico. lì professor Natoli dice giustamente: “Nell’uomo moderno” e fa bene ad usare questo termine in senso generico, perché noi non ci riconosciamo affatto in questa definizione. Se è vero che vivo la mia vita da cittadino del XXI secolo, è anche vero che la mia anima, la mia religiosità, sono vicine a quella di un aborigeno o di un pellerossa. Non ho nulla da spartire con l’avidità di persone che massacrano animali innocenti sull’altare della pseudoscienza - in realtà del profitto e del successo personale - e di persone che applaudono ed incoraggiano queste tòrme di follia, di onnipotenza distruttiva. Sono ben altri i modelli da seguire, i miei idoli. Ecco dunque che gli idoli, lungi dal cadere, rimangono li, innanzi ai nostri occhi, vivi e palpitanti in tutta la loro accezione positiva. Certo, noi tutti ci sentiamo esposti alla morte e sarei disonesto se contestassi la seguente frase tratta dal libro “Stare al mondo”, sempre del professor Natoli:

“In questo Epicuro aveva ragione: quando moriamo non ci siamo più. Egli però sottovalutava quanto la morte pesi nella vita, quanto l’immagine della fine entri in gioco nell’abituale scorrere dei nostri giorni.” Pag. 135

Eppure, nonostante L’educazione necrofobica che noi tutti abbiamo ricevuto Un da bambini, ci rendiamo perfettamente conto che la Morte non è nè giusta né ingiusta, probabilmente triste per il fatto che ci priva del piacere di vivere assieme alle persone che amiamo, ma rimane comunque l’unica conclusione naturale del viaggio che abbiamo iniziato il giorno in cui abbiamo emesso il nostro primo vagito.

‘Tutte le attenzioni che oggi noi diamo al nostro corpo sono il prodotto assoluto dello spirito: l’igiene, la ginnastica, la cosmesi, la dietetica, sono tutti processi di rappresentazioni astratte della corporeità. Esistono prontuari, trattati di anatomia, sistemi di eleganza: il nostro corpo oggi può fare molte più cose perché molto di più su di esso si sa. Ma allora non è più il corpo naturale, il corpo che viveva 35 anni, che generava fino a 30, non è il corpo che periva nelle 
epidemie, che aveva deformazioni e geloni. Il nostro corpo oggi è oggetto della gerontologia, contro l’idea di una vecchiaia scomoda. Ebbene, tuffo questo è astrazione: non c’è più un uomo che usa il mezzo, ma l’uomo è lo stesso mezzo; non c’è una sostanza che esercita qualcuno, ma la sostanza è l’esercizio. Terreni, dunque, sì, perché non c’è l’altro mondo non c’è la garanzia divina; ma non greci. L’onnipotenza quindi non è tanto l’onnipotenza di me piccolo che ho la mia precarietà, i miei dolori, i miei incubi. L’onnipotenza è lo spazio della rappresentazione. Tale che ogni nostro malessere, ogni nostro dolore, sia esso mentale, sia esso fisico, è immediatamente associato, dal buon senso, a una terapia. L.’esistenza, anche quando è segnata dal dolore, è associata a una logica di onnipotenza, che è pur sempre umana e che è la ragione strumentale diventata fine. lì delirio di onnipotenza non è proprio dello scienziato in senso tecnico, in senso pratico; anzi, costui è convinto che molte cose non si possono fare perché non si conoscono: e prudente.” Pag. 50

Ed io insisto: terreni e Greci. Come potremmo noi Pagani considerare scomoda la vecchiaia? La vecchiaia è una parte fondamentale del ciclo della Natura. Ecco ritornare l’idea del ciclo. Contro ogni tipo di pensiero lineare. Probabilmente il professore Natoli non afferma che la vecchiaia è scomoda in quanto tale, ma che oggi si vuole vivere una vecchiaia non scomoda a tutti i costi. Ed in che maniera, vaccinandosi contro la febbre ed utilizzando il Viagra? In realtà viviamo questi vecchietti, più che come esseri consapevoli desiderosi di vivere la propria vecchiaia in maniera dignitosa, come un coacervo di 
schizoidi schizzati. Non è la strada che ci interessa. Non è la strada che percorreremo. 

"Per quanto la scienza sia prudente e sia cosciente di non sapere, pur tuttavia rimane l’unica dimensione entro cui e pensabile l’emancipazione. E quindi, nel momento in cui non si è produttori specifici di un sapere ma si guarda al mondo secondo un regime di senso, la pratica concreta lascia il posto al mito. L’unica cosa attraverso cui io sortisco risultati viene ipostatizzata nella possibilità del risultato come tale. La caratteristica del mito della scienza è di produrre
costantemente la sua autodeterminazione. Perché siamo scienziati e non religiosi? Perché la scienza non ci darà tutto, però fondamentalmente è la via regia per camminare nel mondo, per sapere le cose. Non è l’onnipotenza, ma è la ragione condivisa attraverso cui ci è possibile ottenere quel tanto di potenza che ci è possibile. Quindi la prospettiva tecnologica diventa un quadro conclusivo (nessuna cosa può essere altro che tecnica). In questo quadro conclusivo è
compresa la costante autodemitizzazione, che stabilizza il quadro stesso perché vi include anche la possibilità degli insuccessi. Su questo si sono fondate tutte le ideologie del progresso.” Pagg. 50-51

Ma questa è un’emancipazione che non c’interessa! Non perché ci scagliamo contro la tecnica per poter rimanere fedeli ad un Paganesimo anacronistico, ma perché questo tipo di emancipazione porta alla sofferenza. E non ci può essere emancipazione se un solo essere vivente è costretto a soffrire per potercela donare. Chi mai potrà decidere di utilizzare un’invenzione che può provocare il cancro alle persone che gli sono vicine? O all’ambiente in cui vive? Questa tecnica invadente, con la morte nel cuore, che cancella tutto ciò che può esserle di ostacolo senza remora alcuna è una tecnica diabolica che NON vogliamo. E’ vero: nonostante tutti i suoi sforzi l’ateismo non è mai riuscito ad annullare la religione. C’è riuscita la tecnica. Eppure noi questa tecnica non possiamo né 
dobbiamo accettarla.

“La caratteristica di questo neopaganesimo è data dal fatto che noi siamo ridivenuti terreni per due ragioni di fondo. Una ragione è quella della necrosi di Dio. La necrosi non è solo morte, ma disfacimento, è il processo del diventare altro. 
Ma - secondo - siamo tornati alla terra perché questo processo di astrazione che ho analizzato ce l’ha resa complessivamente più comoda. L’elemento catastrofale di alcuni ecologi (manca l’acqua, si sono inquinate le fonti, tutto è tossico, l’apocalisse!) dimentica che la vita media dell’uomo si è portata attorno ai 70-75 anni, che non ci si avvelena alle fonti perché si controlla lo stato di potabilità delle acque, che non si prende la polmonite perché c’è l’acqua calda. (....)

Noi ci possiamo permettere il lusso della critica perché abbiamo appreso il benessere. Gli ecologi hanno le loro ragioni; 
però è certo che, rispetto alla situazione in cui l’uomo si trovava in passato, la tecoologizzazione gli ha permesso di crescere come sistema di prestazioni, di essere svincolato dalla necessità, di fare un po’ il dio. Lo sviluppo della tecnica è stato una condizione di libertà, tale che tutto sommato l’uomo comincia a star bene sulla terra e può quindi conciliarsi con la terra: Pagg. 52-53

La vita si è prolungata rispetto all’antichità e molte malattie sono state debellate. Ma ne sono sorte di nuove, sconosciute agli antichi. E tante sono scomparse, più che per i progressi della tecnica, per i progressi dell’igiene. La tecnologizzazione ci ha permesso di crescere, ma fin dove siamo arrivati? 
Siamo cresciuti talmente tanto che abbiamo finito con il perdere noi stessi, fino ad un punto che gli Antichi non avrebbero mai potuto raggiungere perché la loro educazione glielo impediva. La Hybris, uno degli insegnamenti base dell’antica Faideia, era lì, a rammentare all’essere umano a cosa sarebbe andato incontro se avesse oltrepassato certi limiti. Da quasi duemila anni la Hybris tace. E la mucca pazza cancella una parte di vite, l’inquinamento un’altra, la velocità delle auto un’altra ancora. lì governo de’ paesi che “contano” si riuniscono per cercare di raddrizzare una situazione drammatica, ma non riescono a mettersi d’accordo su nulla non solo per un pugno di dollari, ma soprattutto per il fatto che la Hybris tace imbavagliata. Tutto sommato sulla terra si vive 
bene, peccato che fra poco non ci si potrà più vivere affatto. Tucidide ci indica chiaramente il destino de’ Greci nel momento in cui voltano le spalle alla Hybris. Temo che una sciagura analoga possa accadere anche alla nostra società. 
Certo, per chi ha sempre considerato la Natura un luogo ostile pieno di pericoli e disertata da Dio la riconciliazione con essa non poteva che avvenire attraverso il progresso della tecnica. La tecnica ha addomesticato la Natura, l’ha fatta genuflettere innanzi alle nostre esigenze ed ai nostri desideri, anche quelli più futili.
Dunque sulla terra viviamo proprio bene e da qui non ce ne vorremmo più andare. Per una persona immersa negli agii e nei comforts come il sottoscritto e che utilizza le invenzioni della tecnica per risolvere la maggior parte de’ suoi problemi può sembrare un discorso falso e di comodo, eppure considererò sempre mostruosa l’idea di riconciliarci con la natura solo nel momento in cui riesco a piegarla a me. Non solo perché sulla terra oggi si commettono atti efferati, 
ma perché tutto ciò viene fatto con un gesto di prepotenza, di prevaricazione. Tutte cose che, lungi dal farci vivere in maniera dignitosa, ci fanno vivere con un senso di ansia, di angoscia inconscia. 
Insomma, per dirla con due parole, ci riconcilieremmo volentieri con la nostra Natura - dopo tanti 
secoli - anche se non esistesse l’acqua calda.

“Ma perché allora neopagani senza tragedia? Perché in questo tipo di organizzazione la tecnica ha realizzato un fatto decisivo e importante: ha separato l’immediatezza del dolore dall’immediatezza della vita. La tecnica ha la possibilità di regolare le soglie del dolore, sia come soglie interne della percezione (hai un dolore, prendi una pillola e scompare) sia come soglie della sua apparizione sociale, perché sotto il segno della tecnica diventa quasi un obbligo morale cedere il sofferente al competente: il che equivale, di fatto, a disfarsi del sofferente. Il dolore non s’incontra più per via come il lebbroso, non si trova a casa quando si torna, con il lamento del parente nel letto: lo si va a trovare in ospedale; e più gli ospedali sono organizzati, meno questi malati si vedono. L’elemento della convivenza con il dolore è deperito, la tecnica ci ha espropriato della visione della sofferenza, con la giustificazione che meglio a si può curare. Ma intanto, quando il malato appare, sparisce il vivente: l’umano è ceduto, è istituzionalizzato come malato. E quindi, in quanto 
istituzionalizzato come malato, diventa innocuo. Soltanto attraverso La tecnica è stato possibile regolare la soglia di apparizione del dolore dentro di sé, come percezione della sofferenza, e la soglia di apparizione sociale del dolore, che è ancora più pericolosa. Ecco perché non siamo tragici: perché, mentre l’uomo tragico emergeva dalla sofferenza, alzava la testa e lo sguardo carico del peso delle sue ferite, si fabbricava nel dolore, noi invece siamo più amanti della terra 
perché la terra è stata sollevata dal dolore. Quindi siamo pagani in quanto terreni, ma non più tragici, perché il corpo a corpo con la sofferenza noi oggi non lo sapremmo reggere più. Abbiamo bisogno dell’astrazione epocale della tecnica.” Pagg. 53-54

Certo, l’elemento del tragico è perduto per sempre. E qui c’è poco da tornare alla grecità. Eppure, al di là di tutto, non potremmo mai sabotare il rapporto con il nostro corpo attraverso la farmacologia. 
Il corpo ci comunica grandi cose quando si ammala, sarebbe controproducente metterlo a tacere con una pillola. A questo rapporto non intendiamo rinunciare. Al nostro corpo che si ammala perché desideroso di fermarsi un attimo per riposare non possiamo rispondere con una terapia d’urto in 
grado di rimetterci in piedi in poche ore. La possibilità di schiacciare un bottone per ricevere il farmaco adatto ad ogni tipo di evenienza è una possibilità mostruosa. Ci spersonalizza, ci rende robots in grado di affrontare artificialmente ogni tipo di situazione penosa. Non si tratta di un’etica 
della sofferenza in quanto tale, ma di un’etica naturale, che ci riconcilii con il nostro essere “naturali”. Condizione che si cerca di fuggire il più possibile, anche attraverso i farmaci. Ritornando alla ciclicità de’ nostri padri cade anche il bisogno di salvezza. L’unica cosa che va veramente 
salvata e salvaguardata è l’ambiente, la Natura in cui noi tutti viviamo, lì ciclo estingue il bisogno di salvezza perché ci restituisce quello che siamo, esseri viventi con la stessa dignità degli altri esseri viventi che ci circondano. In questa configurazione la tecnica può ben poco. Dobbiamo 
sviluppare un più ampio senso di dignità e di spiritualità, altro che tecnica!

“Tutte queste cose lasciano al fondo un bisogno di salvezza, di una salvezza che non può risiedere soltanto in noi stessi (perché altrimenti saremmo tragici). Un bisogno di salvezza complicato dal fatto che c’è stata una tradizione in cui questa salvezza è stata annunciata e promessa. Allora abbiamo a che fare con la modificazione del modello escatologico: un bisogno di salvezza senza fede. C’è il desiderio di un mondo liberato dal dolore, ma non c’è più un Dio che garantisca questo, non c’è un garante assoluto. Quindi ancora una volta torna la tecnica come luogo della propria salvezza: quello che non può fare Dio, deve essere costruito dall’uomo stesso. Torna la figura mitica della tecnica. Ma suo carattere distintivo è che, assumendo la tecnica la dimensione dell’onnipotenza, essa si profila con una grandissima ambiguità: perché è vero che è l’unica dimensione entro cui l’uomo si può salvare, o può pensare la propria salvezza, 
ma non essendoci un garante assoluto, la tecnica può anche essere la possibilità dell’orrore. Cioè può scatenare entro di sé delle contro-formalità che, lungi dal salvare, distruggono il mondo. Ma distruggono il mondo così come lo distruggerebbe Dio, perché ormai la tecnica ha la possibilità di far sparire la terra. Nella storia mai l’uomo ha avuto La possibilità di far sparire la terra; poteva far apparire questo e sparire quello, ma non poteva far tramontare la terra. 
In questa oscillazione tra salvezza e distruzione è il destino della tecnica: destino che ci fa lontanissimi dai greci: neopagani significa allora, essere diversamente pagani.” Pagg. 56-57

E invece, se in questa drammatica oscillazione vogliamo provare ad andare in direzione della soluzione dobbiamo rifarci Greci, diversi dagli antichi Greci, ma pur sempre Greci. Non vediamo altra soluzione se non quella di ripensare il nostro rapporto con la terra diversamente da come lo vive “l’uomo moderno”. Riacquistare le basi dell’antica Paideia ed utilizzarne i precetti, il primo de’ quali quello della Hybris. Perché, al di là di quanto la tecnica afferma e ci ha insegnato in questi ultimi secoli, possiamo tornare a vedere il mondo che ci circonda con gli occhi stupiti de’ Greci. 
Perché la terra possa tornare ad essere Dea. Pagani si può essere. 
Pagani - in taluni casi - si deve essere.

“La grecità fa da specchio al presente e proprio per questo ci restituisce qualcosa che non le appartiene. Nel contempo, però, lo specchio diviene effettivamente le immagini che rispecchia. Ora se i greci ci fanno da specchio è verosimile che rispecchiandoci in essi noi riusciremo a sapere di loro molto di più di quanto loro sapessero di sé. In questo gioco di proiezioni i greci sono resi diversi pur permanendo gli sterni e chi in essi si rispecchia si rende loro intimo pur 
permanendo diverso. L’identificazione con un qualsiasi modello reinventa ciò con cui si identifica e in questo senso essa è atto assolutamente originale, almeno nel senso in cui ne parla Nietzsche: «Originale. Non il vedere per primi qualcosa di nuovo, bensì il vedere come nuovo l’antico, ciò che è già anticamente conosciuto e che è da tutti visto e trascurato, contraddistingue le menti veramente originali».” Pag. 60

Ma in definitiva, cos’hanno gli antichi Greci da insegnarci dopo quasi duemila anni che sono scomparsi? Com’è solo lontanamente pensabile la remotissima possibilità di condurre la propria vita come la conducevano loro? 
Ciò che l’antica Grecia rappresenta per noi è un immenso laboratorio di sperimentazione. Un luogo che contiene in nuce tutto quanto l’essere umano ha esperito fino adesso. Ha ragione il mio amico Oreste quando dice che i vegetariani traggono dal Paganesimo solo ciò che a loro fa comodo, 
eppure il vegetarianesimo dell’antichità è una delle tante possibilità che si pongono innanzi a noi. 
Non si tratta di sedersi a tavolino, scegliere una delle tante culture dell’antichità e cercare ciò che più si avvicina ai nostri ideali di persone ormai divenute adulte, ognuna con la propria ideologia politica e culturale. Non avremmo mai potuto scegliere i Greci perché in realtà sono loro ad aver scelto noi fin da quando siamo nati. Ed Athene, nello specifico. Athene ci ha scelti e noi non abbiamo potuto - né abbiamo voluto - sottrarci alla sua chiamata. Così come Omero rappresentava il punto comune per tutti gli abitanti della Grecia e delle sue colonie, dalle colonne di Eracle al mar Nero, così Athene rappresenta prima che un luogo fisico e storico, un luogo mentale che risiede in ognuno di noi. Questa è la nostra cultura, questa è la nostra religione. Per noi Athene non è un 
luogo meramente culturale da cui attingere per un nostro hobby o per passare il tempo o per impiegare le nostre energie in un progetto culturale, Athene è molto di più. E’ la nostra vita. Certo, nel momento in cui ci identifichiamo con lei creiamo qualcosa di nuovo, apportiamo la nostra sensibilità di persone calate nel XXI secolo. Elaboriamo nuove forme, nuovi modelli, ma ciò che le anima è quanto di più antico ci possa essere. Non consideriamo anti-greco il nostro vegetarianesimo od il nostro femminismo, e non solo perché questi modelli sono apparsi timidamente anche allora. 
Eventualmente diversamente Greco, ma non anti-greco. Ed anche il nostro libertarismo, il nostro anelito alla libertà è già stato analizzato da Aristoteles e neanche in termini negativi. Per quanti sforzi facciamo non riusciamo assolutamente ad inventare qualcosa di cui i Greci non avessero già 
parlato, analizzato, elaborato. Certo, abbiamo perduto il senso del tragico, eppure non riusciamo ad essere non greci. 
Non si tratta, quindi, di una moda culturale come certe pseudo-antropologhe potrebbero affermare. Le mode sono effimere, lasciano il tempo che trovano, ciò che si è, invece, lo si è per sempre. La Grecità è stata, e sempre sarà, un’esperienza memorabile.

I libri del professore Salvatore Natoli che ho consultato sono:

I Neopagani”. Ed. Il Saggiatore

Stare al mondo”. Ed. Feltrinelli



Bak

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