Come ho conosciuto gli Dei

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Come ho conosciuto gli Dei



Come ho conosciuto gli Dei - Piero Trevisan

Raccogliendo l’esempio dell’amico Francesco Tuccia, ho pensato di scrivere un articolo raccontando il modo in cui anch’io sono arrivato al Paganesimo.
Penso che Francesco abbia fatto molto bene a narrare il suo percorso interiore, non per mettere in piazza i propri sentimenti religiosi, ma per spingere gli altri pagani ad aprirsi e a confrontarsi l’un l’altro sulla propria religiosità pagana. Il Paganesimo in Italia soffre di parecchie carenze, e una
delle maggiori è che spesso si parla di Paganesimo senza minimamente voler chiarire che cosa s’intende con esso.
Penso che la cosa migliore da fare sia parlarne nel modo più concreto, parlando della propria interiorità religiosa e della propria storia. Se non riusciamo a chiarirci le idee con discorsi astratti, proviamo a fame di più concreti, parlando delle nostre storie. Se non bastano le definizioni teoriche,
definiamo noi le cose con i nostri vissuti.
E’ protagonismo, questo? Non credo. Anche perché il nostro ambiente è così “salottiero” che certamente non correremo il rischio di veder riferire di noi al telegiornale nazionale, o sui settimanali.
Sperando che altri vogliano seguire l’esempio di Francesco, intanto inizio io, e racconto come è avvenuto che dal Cattolicesimo sia passato progressivamente al Paganesimo.
Fin da bambino ho sempre avuto una forte spinta religiosa, che però si manifestava in maniera confusa e contraddittoria. Ero stato educato nella religione cattolica, come capita a tutti i bambini veneti, o almeno alla maggior parte di essi, e credevo di credere nel Dio del monoteismo, ma molte
cose mi lasciavano perplesso e confuso. Certamente, anche se andavo a Messa perché obbligato, non partecipavo volentieri ai sacramenti cattolici, ed i preti non m’ispiravano nessuna simpatia. La Chiesa Cattolica in genere non m’ispirava simpatia.
Fin da bambino però sentivo una “strana” attrazione per il Paganesimo, per i molti Dei della Natura. Mi appassionava la mitologia, sia greca che di altre tradizioni, e appresi molto presto i principali miti ellenici. Mi affascinava soprattutto la figura di Ercole, il semidio, mi appassionavano le
avventure di Ulisse.
A volte mi prendevano fantasie molto strane, che avrebbero lasciato perplessi gli adulti (e infatti non le confidavo). Ricordo che a volte mi domandai se nel mondo del futuro non avrebbe potuto esserci una nuova religione, e se sarebbero stati adorati altri Dei. Mi affascinava l’idea di
considerare gli astri come Divinità, come puri aspetti fisici di forze misteriose che agissero dentro la Natura. Mi affascinavano le leggende sugli Spiriti della Natura, elfi, fate, fauni, ninfe e altri esseri ancora.
Ma erano solo fantasie, mentre la “realtà” era data dalla religiosità ufficiale, quella cattolica.
Crescendo, mi sforzavo di chiarirmi dentro, ma il mio errore era ostinarmi a mettere d’accordo le mie esigenze religiose con la tradizione cattolica, che non mi soddisfaceva. Sentivo il Dio dei cristiani lontano e astratto, oppressivo e severo, che prende tutto senza dare poco o nulla, un Dio
che spingeva alla depressione e allo scoraggiamento, ai sensi di colpa e alla tristezza, lontano dal mondo della Natura e dell’uomo.
Un Dio che non mi sentivo spinto a pregare, un Dio che non sentivo amico, anche se mi sforzavo di considerarlo tale; inutilmente, perché quel Dio non poteva e non avrebbe mai potuto esserlo.
Incompatibilità di carattere: io ero una persona mite, rispettosa della libertà degli altri, che cercava di essere gentile, paziente e comprensiva (fin troppo!). Lui, invece parlava di misericordia e poi condannava al fuoco eterno chi aveva sgarrato appena un po’ dalle regole che aveva imposto, e che
nessuno era capace di adempiere in tutto. No, non faceva per me, ma io ero troppo giovane (e scemo, devo ammetterlo!) per rendermi conto che io non avevo niente a che fare con quel Signore.
Col passare degli anni, arrivato all’adolescenza, le cose peggiorarono: avevo scoperto che c’erano tante religioni a questo mondo, e che, da quel che potevo capire, avevano anche loro qualcosa di buono. La religione indù era quella che m’interessava di più. Gli Dei dell’Induismo mi affascinavano come quelli greci o nordici, con i quali tra l’altro erano visibilmente imparentati.

Sono sempre rimasto dell’opinione che il Politeismo vada reinventato, nelle sue forme cultuali, sulla base di quel poco che se ne sa, dei modelli anche stranieri che conosciamo, ma senza preoccuparci troppo di voler riportare in vita una corrente etrusca o celtica, o di qualsiasi altra etnia abbia a suo tempo popolato l’Italia o il Mediterraneo. E che debba avete ai suo interno una corrente maschile ed una femminile paritarie fra loro: cosa per nulla automatica, come ho scritto poco più sopra riguardo a Greci e Romani, che comunque non furono i soli ad avete certi atteggiamenti.

Che cosa ho ricevuto da questo modo di pensare La propria spiritualità?

Innanzitutto una diversa filosofia ed una diversa scala di valori, rispetto non solo a quelli imperanti (che già non tolleravo) ma anche a quelli in cui ero cresciuto: perché non bisogna scordare che, in fondo, l’Anarchia è una dottrina filosofica figlia dell’Illuminismo: che a sua volta è stato null’altro che una forma laica di Monoteismo.

E, direi, soprattutto un ritrovarmi in sintonia con la terra e con il ciclo delle stagioni che non avevo mai immaginato per tutto il tempo della mia vita da “cittadino”, conclusasi cinque anni or sono con il trasferimento in piena campagna: sintonia di cui avevo però sempre avvertito la mancanza, in maniera inconscia; e che ritengo fondamentale in chiunque abbia un profondo interesse e rispetto per l’ecologia, soprattutto nella sua forma bio-regionalista.
L’esempio dei guru indù mi sembrava che sfidasse quello (lei santi cattolici, con in più l’aggiunta dell’accrescimento del pensiero filosofico, tipico dei santi induisti, e quasi assente in quelli cattolici.
In più, gli Dei cominciarono a farsi sentire con più forza, ma non ancora abbastanza.
La mia conoscenza dei miti antichi di tutto il mondo e delle religioni politeistiche cresceva a poco a poco, e in me cresceva anche il fascino per il politeismo. Pensavo che sarebbe stato molto bello poter credere negli Dei e adorarli ogni giorno. Pregare le loro immagini, entrare nei loro templi (che
avrebbero potuto essere dei semplici boschi con altari di pietra), celebrare i loro riti, sentire la loro presenza nelle forze della natura. Poter entrare in un bosco, camminare sulla riva del mare, contemplare gli astri dalle colline e dai monti, e sentire che gli Dei c’erano, che erano presenti, vicini a noi.
Sarebbe stato bello, ma non riuscivo a crederci, a fare “il salto interiore”, la metanoia, come avrebbero detto gli antichi Greci, che mi permettesse di essere convinto, e non limitarmi a vaghe fantasie e immaginazioni. Su di me agivano i pregiudizi dei cristiani, che consideravano la Loro religione “superiore” alle altre perché adorava “un Dio che si era fatto uomo”. Che consideravano gli Dei del Paganesimo come concetti primitivi, superstiziosi, favolistica, non più proponibili al mondo moderno. A quel tempo non avevo ancora abbastanza mezzi critici per rendermi conto che la teologia cristiana, che a quel tempo mi appariva “inoppugnabile”, era in realtà anch’essa criticabile come qualsiasi altro sistema di pensiero, e che le argomentazioni apologetiche del Cristianesimo
potevano essere rovesciate per smentirlo.
Chi è giovane ha difficoltà a capire i condizionamenti che subisce, soprattutto quando non c’è nessuno che sia in grado di aiutarlo a liberarsene.
E poi, se anche mi fossi deciso per gli Dei del Paganesimo, in quali Dei avrei dovuto credere’? Gli Dei antichi erano scomparsi, non li conoscevo, né potevo conoscerli, se non attraverso i miti, e io non mi sentivo in grado di reinventare il Paganesimo. Un compito che mi pareva ancora troppo grande per me.
Cosi continuavo a reputarmi “cristiano” anche se ormai la Chiesa Cattolica mi era praticamente insopportabile, e il Cristianesimo, in ogni sua forma, non riusciva a colmare il grande vuoto interiore che sentivo. In me si agitava l’attrazione per il politeismo ed il panteismo, ma la forza della tradizione e delle imposizioni dell’ambiente e della cultura si faceva sentire ancora troppo, per spingermi alla liberazione finale.
A volte disegnavo i volti degli Dei, a volte ne invocavo il nome, sperando di scoprire in me quella fede che non trovavo. Guardavo il Sole, la Luna, l& foreste e le montagne, i fiumi ed i laghi, e in essi speravo di trovare un giorno le Presenze che non riuscivo a percepire ancora.
Fu la filosofia ad essere il tramite della mia liberazione e del mio abbandono al Paganesimo e ai suoi Dei. Come tesi di laurea in filosofia, mi fu proposto di farla su Gandhi e sul suo pensiero, che nella mia università finora nessuno aveva trattato.
Dopo qualche titubanza, decisi di accettare la proposta, e mi misi a studiare Gandhi. Fu la lettura dei suoi scritti, che mi spinse al cambiamento definitivo, e mi allontanò definitivamente dal Cristianesimo, avvicinandomi lentamente al Paganesimo, attraverso un lungo, tormentato tragitto.
Gandhi, nato nella politeistica India, era rimasto tutta la vita legato all’Induismo, e si era rifiutato di abbracciare un’altra religione, anche se alcuni lo considerano una specie di quasi-cristiano. Gandhi affermava che della Verità esistono molti, diversi aspetti, in numero infinito, e che quindi anche la
Divinità, che è la Verità stessa, ha infiniti volti diversi. Gli Dei che l’umanità ha adorato e creduto nella sua storia non sono altro, tutti e ciascuno, che i diversi volti della Verità, uguali e distinti, differenti eppure uniti, che si succedono senza fine nella storia dell’universo. La Verità è infinita, perciò i suoi volti sono infiniti, e non esiste una religione o un Dio che sia quello definitivo, quello superiore a tutti gli altri.
Riconoscevo la verità di questa dottrina, che aveva dalla sua parte sia lo studio delle scienze umane, che avevano dimostrato la relatività delle religioni e delle morali, e anche la filosofia, il cui pensiero critico aveva demolito da tempo la pretesa del Cristianesimo e delle religioni monoteistiche in genere di essere l’unica verità assoluta.
Ma se la Divinità ha molti volti, allora non c’era un solo Dio, o una sola religione vera, o una sola morale legittima, ma c’erano molti Dei, molte religioni e molte morali.
Fu così che abbandonai definitivamente il Cristo; intorno ai 27-28 anni, per accedere al Paganesimo. Per un po’ rimasi ancora in conflitto, tanta era la forza dell’abitudine di una vita, poi, dopo qualche mese lessi Le nebbie di Avalon, di Marion Bradley Zimmer, una delle più famose scrittrici viventi del genere fantascientifico e fantasy. lì romanzo, che narrava la storia della Fata Morgana, immaginata come druidessa e ultima grande sacerdotessa del Paganesimo celtico-britannico della Grande Dea Madre, custode dell’isola incantata di Avalon, anche se di qualità letterariamente scadente, fu per me un segno divino e un’illuminazione. La Grande Dea Madre della Natura, la cui immagine panteistica mi aveva sempre colpito, e che io tendevo a sostituire
all’immagine cattolica della Madonna, a cui ero stato consacrato dai miei genitori, ma che a dire il vero non mi era mai piaciuta per l’atmosfera di “mammismo” che la circondava, ora mi chiamava definitivamente al Paganesimo, mi chiamava con L’amore di una Madre Cosmica che non aveva lo sdolcinato sentimentalismo di Maria. Mi chiamava con i suoi molti nomi e le sue immagini sparse nel mondo e nella storia: Iside, lshtar, Astarte, Afrodite, Venere, Diana, Furinome, Demetra, Rhea.
Gaia, Nut, Tiamat, Kali, Shakti e Durga, Amaterasu e molti altri nomi.
Mi diceva di abbandonare definitivamente l’aspetto puramente maschile, patriarcale (e non paterno) della Divinità, che ci avevano insegnato le religioni monoteistiche, per riconquistare l’aspetto materno, femminile della Divinità, non più separata dalla Natura, ma ad essa unita indissolubilmente. Non avrei mai più detto, con l’amaro in bocca, “Padre nostro che sei nei Cieli”, bensì “Madre nostra che sei nei Cieli e nella Terra”. E quando lo feci, sentii il mio  cuore allargarsi
finalmente, liberato, riempito da una nuova Presenza e da nuove immagini.
La Dea Madre mi aveva liberato dal monoteismo, per consegnarmi definitivamente alla mia patria interiore. Scoprii in me, con gioia, la capacità di pregare, di credere in questa nuova immagine della Divinità. Ogni giorno pregavo la Dea Madre, le chiedevo di illuminarmi e di condurmi sulla Sua Via. Da allora, da quella svolta di circa dieci anni fa, sono rimasto legato al Paganesimo.
Certo, la mia maturazione pagana è continuata con parecchi momenti d’incertezza, ripensamenti, evoluzioni. Dovevo liberarmi di molti residui del Cristianesimo e del monoteismo, dovevo soprattutto liberarmi dalla solitudine della mia scelta, Il fatto di non conoscere nessuno che condividesse la mia fede mi pesava molto e mi faceva sentire, in certo modo, “inutile”. Essere politeisti in un mondo che si dichiara monoteista, anche se in esso si agitano ormai molti semi di
politeismo, rendeva ancora difficile la mia scelta religiosa.
Ma più passava il tempo, e più mi convincevo che la scelta interiore che avevo fatto era quella giusta. Soprattutto, mi resi conto che credere negli antichi Dei e nella loro Madre Universale non era un rinunciare alla ragione e al pensiero critico, perlomeno non di più di quanto lo sia credere in
un unico Dio. Dal punto di vista della ragione e della scienza, non fa differenza credere in un unico Dio che governa il cosmo, o credere che ce ne siano molti. Si tratta di due fedi ugualmente indimostrabili sul piano della ragione scientifica. Ma non lo sono sul piano della ragione filosofica.
Il monoteismo ormai mi appariva per quello che era: il tentativo di asservire il mondo intero ad un unico ideale opprimente che sottomettesse tutti ad una morale e a un modo di pensare monolitico e incapace di dare risposte adeguate ai tempi.
lì politeismo invece cercava di comprendere l’infinita molteplicità delle cose e delle persone, del mondo e della storia, e celebrava la tolleranza e l’armonia fra le differenze, non più viste come una “disgrazia”, come invece fa il monoteismo, ma come una ricchezza inesauribile, come poteva fare il
politeismo, se riconosceva la propria identità profonda.
In questi due ultimi anni soprattutto la mia religiosità pagana si è fatta sempre più forte e convinta.
Non sente più quasi nessuno strascico monoteista, si esprime pienamente e per me pregare gli Dei con convinzione ogni giorno è diventata una cosa normale, non più da “stravaganti”, anche se non la confido a nessuno.
A volte, quando ho tempo, disegno piccole icone (caserecce, diciamolo), immaginette pagane che uso poi nella preghiera, celebro riti in casa, oppure in campagna o nei boschi, dove cerco di richiamare la presenza degli Dei e sentirmi in armonia con la Grande Dea Madre.
Per quanto riguarda poi la pratica di ciò che viene chiamata “stregoneria”, devo dire che per me non ha senso distinguere fra rito religioso e rito magico. perlomeno se si rimane in un’ottica religiosa. Il rito religioso è un insieme di gesti, di simboli e di parole atte a mettere in contatto la propria
coscienza con le Potenze Divine, e perciò rito, preghiera e “magia” sono la stessa cosa. Ma non condivido i deliri di onnipotenza di certe persone che praticano la stregoneria per non si sa bene quali scopi: Potere? Ricchezza? Incantesimi miracolosi? Far rompere la gamba al vicino che ci sta
antipatico? No grazie, non m’interessa e, soprattutto, non ci credo. Per me, se di “stregoneria” o di “magia” si vuoI parlare, essa ha come solo scopo quello di darci quella pace interiore, quell’armonia con il mondo e se stessi che, in teoria, dovrebbe dare ogni religione e magari - perché no? -
permetterci un contatto faccia a faccia con i nostri Dei.
Quelli che praticano magia per farsi grandi, o addirittura per “diventare Dei”, li considero alla stregua di coloro che seguono l’ideologia di onnipotenza dell’individuo sul mondo e sulla Natura tipica dell’Occidente, e che io rifiuto ormai da molto tempo.
Ma per me il culto puro e semplice non basta.
Sento il bisogno di riconoscermi in una comunità che condivida almeno in parte i miei sentimenti religiosi, con la quale impegnarmi nella ricerca interiore, nella contemplazione mistica della Natura, nel testimoniare uno stile di vita in armonia con la Natura, l’umanità, l’infinita molteplicità del Tutto.
E’ possibile tutto questo? Credo di si, ma purtroppo i tempi non sono maturi. I pagani italiani forse non sono ancora sufficientemente maturi e convinti della propria identità per organizzare comunità che sappiano riunirsi per partecipare a riti religiosi e iniziative culturali. Questo perché in Italia,
paese ancora troppo cattolico, il ritorno del Paganesimo appare come una cosa nuova e stravagante, riservata a pochi “spiriti liberi”. Pesa inoltre il vizio tipico degli italiani di non saper andare d’accordo tra loro e formare gruppi compatti.
Per il momento, si può solo confrontarsi sui vari bollettini neopagani che compaiono sempre più numerosi, e magari organizzare qualche incontro per le maggiori festività pagane (alle quali io, tra l’altro, non ho avuto ancora occasione di partecipare).
Per me, il passo successivo, dopo aver conseguito una coscientizzazione del mio Paganesimo, è il “venir fiori”, il “coming out”, il presentarsi al mondo in quanto pagani, il non nascondere più le proprie convinzioni religiose come se fossero una vergogna o come se potessero danneggiare la
nostra immagine pubblica (il pregiudizio popolare associa il Paganesimo al Satanismo, con le conseguenze che si possono immaginare, purtroppo).
Verrà quel giorno, prima che tiri le cuoia di vecchiaia e vada a raggiungere i miei Dei? Forse, nel frattempo posso solo pregare, celebrare i riti e scrivere sulle fanzines come questa.


Bak

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