Festa dei Morti in Sicilia
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La nozione di Festa dei Morti
(2 Novembre) che risulta dalla pagina qui riprodotta è tratta da:
Spettacoli e feste popolari
siciliane, descritte da Giuseppe Pitré. « Biblioteca delle tradizioni
popolari Siciliane », vol. XII,
Luigi Pedone Lauriel Editore
-1881 Palermo
Chiamasi in
Sicilia « íornu di li morti » , o semplicemente
« li morti » , il 2 di novembre, in cui la Chiesa con pia
cerimonia fa solenne commemorazione dei defunti. In quei giorni molti
Palermitani vanno a visitare le Catacombe dei Cappuccini fuori Porta
Nuova, dove per antica usanza gli scheletri dei morti, ravvolti in
panni neri, pendono attaccati alle pareti o stanno in nicchie esposti
agli occhi dei visitatori, tra i quali i superstiti congiunti mandano
ogni anno per questo giorno candele di cera da accendersi innanzi a
questo o a quel parente.
Or
delle anime dei trapassati parenti la facile credenza del volgo ha
fatto per i fanciulli dei geni benefici. Nella notte dal 1 al 2
novembre i morti lasciano la loro paurosa dimora, e in frotta o alla
spicciolata scendono in città a rubare ai più ricchi pasticcieri,
mercanti, sarti ecc., dolci, giocattoli, vestiti nuovi e quanto altro è
in essi morti, l’intenzione di donare ai fanciulli loro parenti, che
siano stati buoni nell'anno, che li abbiano devotamente pregati, che
abbiano fatto per essi qualche astinenza: è un furto innocente, che
vuota il borsello del babbo, della mamma, del nonno, e impigua quello
dei fieranti, dei venditori cioè di cosiffatti ninnoli, radunati in una
fiera improvvisata ora in un posto ora in un altro, ma per lo più in un
sito popoloso della città. Non è improbabile che questa fiera un tempo
si tenesse nel pubblico mercato che da noi si chiama Vucciria, perché
dai fanciulli si chiede che i morti per quella sera se ne stiano tutti
alla Vuccíria; ed una frase proverbiale consacrata per la ricorrenza
dei Morti dice: « Sapiri la Vucciria »,che significa sapere
che li cosi di morti (nome complessivo dei regali che si fanno ai
bambini) non son donate già dalle anime dei trapassati, ma bensì dai
vivi: e quindi conoscere questo grazioso inganno, e per traslato,
essere accorto, scaltro e malizioso. E da qui nasce che nessuno può
pretendere alle « cosi di morti» che conosca la via della
Vucciria, e se la conosce bisogna che faccia le viste di non conoscerla
se vuol esser trattato con doni e con strenne.
Quando
si avvicina la festa, i bambini cercano di chi dovrà andare alla
Vucciria a parlare ai morti in favore loro; e se non stan buoni, si
minacciano che non si andrà alla Vuccíria, non sarà fatta nessuna
raccomandazione, non si parlerà ai morti.
Chi
ci crede piange e s'attrista e promette di emendarsi; e chi no, con un
certo sorriso malizioso e con certi sguardi che nei fanciulli dicono
molto, non se ne arreca gran fatto. Per lo più promette di andare a
parlare ai morti chi ha intenzione o si presume di far dei regali; così
si spiega il proverbio sulla festa dei morti:
«
Si nun vennu li morti, nun camminanu li vivi » ovvero « Vennu li
morti pri camminari li vivi ».
*
(Dicesi pure: « Dddopu li morti caminanu li vivi » -
PITRE',« Proverbi siciliani», vol. III, p. 68).
E’
già la sera aspettata, e i bambini, i fanciulli non hanno requie; pure
vanno a letto ben presto tra timidi e speranzosi.
Le
mammine fanno recitar loro orazioni, preghiere od altre « cose di Dio
», e non vi mancano i paternostri tanto efficaci perché i morti non
facciano orecchie da mercante. La preghiera fanciullesca è
questa:
Armi
santi, armi santi,
Io
sugnu unu e vuatri síti tanti:
Mentri
sugnu 'ntra stu munnu di guai
Cosi
di morti mittitimìnni assai.
Intanto
i monelli vanno per le strade gridando in tuono lamentevole e
prolungato:« Li morti vennu e ti grattanu li pedi! »
E
qui vedresti i fanciulli farsi piccini, rannicchiarsi per paura dei
morti, paura che non fa male, che non stuzzica neppure i vermini che le
mamme siciliane sogliono trovare in ogni grave malattia, in ogni lieve
indisposizione dei loro bambini.
Palpiti
trepidazioni, speranze li agitano; ma pure tengono chiusi gli occhi per
non dispiacere ai morti o per non impaurirsi della loro vista.
Finalmente poi viene il sonno, e tutto s'immerge nel profondo silenzio
della notte.
I
morti escono dai cimiteri ed entrano in città. Siccome in passato
cimiteri erano per lo più entro i conventi dei Cappuccini, così i morti
sogliono partire da quei conventi. In Cianciana però escono dal
Convento d S. Antonino dei Riformati, attraversano la piazza e arrivano
al Calvario quivi fatta una loro preghiera al Crocifisso, scendono per
la via del Carmelo. E’ nel passaggio appunto che lasciano i loro regali
ai fanciulli buoni. Nel viaggio seguono quest'ordine: vanno prima
coloro che morirono d morte naturale, poi i giustiziati, indi i
disgraziati, cioè i morti per disgrazia loro incolta, i morti di
subito, cioè repentinamente, e via di questo passo. In Casteltermini il
viaggio è ogni sette anni, e i morti lo fanno attorno al paese, lungo
le vie che devono percorrere le processioni solenni. In Vicari i morti
portano in processione dai Cappuccini ma non fanno nessun regalo; i
regali li fa, come innanzi dirò, la Vecchia di Natale. Rimessi di
questo modo a vita effimera i morti, appariscono essi vestiti? Ciò non
saprei affermare, essendo molto vago nella tradizione. Quel che si sa è
che in Acireale vestono di bianco, avvolti come quelli del Friuli, nel
funebre lenzuolo, e calzano scarpe di seta, forse per eludere la
vigilanza dei venditori ai quali andranno a rubare qualche cosa. In
Borgetto, Partínico, ecc. vanno avvolti nel solo lenzuolo a piedi nudi
e con un grattugia di sotto, portanti ciascuno un torchio resinoso
acceso; procedono a due a due recitando rosarii e litanie. In Milazzo,
col teschio pesante che hanno sul debole collo, schiacciano la tenera
cervice dei bambini hanno tutti in mano una crocetta con la quale
cavano gli occhi ai fanciulli indiscreti e curiosi. In Catania
passeggiano in processione per le strade recitando il rosario. In altri
comuni dell'Etnea camminano « cu lu coddu di filu », cioè con un
collo di filo, sottilissimo quanto un filo. Quindi girato per i
sestieri più popolati del paese, e giunti ove essi devono, si fanno
formiche per entrare nelle case dei loro congiunti, penetrano per le
fessure e non mai visti fanno il fatto loro. In che modo passino i loro
doni non sappiamo, ma è certo che li passano. Così nelle novelline
popolari i figli di re coi piede d'una formica da essi beneficata hanno
la potenza di convertirsi nella stessa formica e penetrare nei castelli
incantati a trovarvi la principessa fatata, cui essi lungamente
cercarono.
In
Salaparuta i morti non sempre entrano nelle case, ma lasciano il dono
alle porte e alle finestre per lo più dentro le scarpe se i bambini
appartengono al basso popolo, in canestrini se sono del medio ceto.
Durante il viaggio dei morti le campane della parrocchia suonano tutta
la notte a mortorio, e le mamme e le nonne, nelle prime ore della sera,
raccolti a voglia i figli e i nipoti li trattengono raccontando loro le
geste dei morti, e facendo pregare per loro mentre sono già usciti
dalle sepolture. Nella stessa Salaparuta i fanciulli che vanno a
visitare i morti dei Cappuccini si provveggono di coccole raccolte ai
cipressi del convento, e con esse tutto il giorno giocano. In questa
occasione spiccano in copia bacche di cipresso e fronde di rosmarino e,
come cose dedicate ai morti, le portano in festa dentro le case loro.
In
Monte Erice i morti mangiano: fatto utile alla storia comparata degli
usi funebri. Partendosi dalla chiesa dei Cappuccini, a un terzo di
miglio dalla montagna, recano con loro tutto quanto è necessario a far
« buoni morti » ai bambini loro devoti.
Giunti
alla Rocca Chiana si fermano a prender riposo, sedendosi tutti in giro
per rifocillarsi con ciò che di meglio possano immaginare i fanciulli
ericini, cioè con pasta ben condita. Ripreso via per i sentieri più
diserti, vanno a lasciare i loro doni dentro le case dei bambini. Non
ignorano tutto ciò costoro, e la mattina pertempissimo scendono a
brigate ai Cappuccini a vedere i morti che sono stati così buoni per
essi; ma nello scendere vanno saltelloni per una scorciatoia, onde
evitare Rocca Chiana, temendo che qualche morto non sia ancor là a
mangiare, gli avanzi della lauta libagione.
Accadde
una volta in uno dei viaggi notturni dei morti un fatto che è tutto
piacere a sentire dalle donne etnee. Le quali raccontano che nei tempi
antichi un fanciullo orfano, desideroso d'incontrare in mezzo a quello
stuolo di morti il povero padre suo, uscisse solo di casa vagando pieno
di ansia e di paura. Ad ogni corpo che incontrasse era presto a
domandare:
«
Veni mè patri? » e l'altro a rispondergli subito: «
Apressu... » I morti eran tanti che il povero orfanello non ne
poteva più, finché già vicino ad abbandonarsi dell'animo, tra i pianti
e i singhiozzi trovatolo, e n'ebbe baci, carezze e dolci. Appunto da
questa storiella ripete la sua origine una frase proverbiale di Aci:
« Veni mè patri? Appressu!, » che si suol dire quasi
motteggiando allorché si attende persona che non giunge mai.
Ma
lasciamo codeste particolarità e riprendiamo il filo dei nostri usi.
E’
già fatto giorno e i bambini balzano dal letto impazienti di cercare
dappertutto. Le cose dei morti, vedi astuzia d'una madre! sono nascoste
dove meno possono sospettarsi, e perciò crescono nei bambini le ansie,
incaloriscono le premure. A certo punto essi trovano qualche cosa, e
gridano: « Ccà su' » ! E che trovano essi? una treccia
d'agli, un mestolo rotto, un paio di ciabatte sdrucite, un oggetto,
insomma, ridicolo. Se se ne adontino non è a domandare, falliti di
punto in bianco i sogni dorati di tan fors'anche di tutto un anno. Le
scaltre mamme se ne rammaricano in apparenza, ma pure « con tronche
parole e mozzi accenti », con chi sa! con forse! li eccitano a nuove
ricerche: « Forse, dicono esse ai figli, i saran fatti di coscienza,
forse si saran guardati dal lasciar deluso un bambino che li ha pregati
con tanta devozione... » E qui ricomincino premurose le ricerche; e
mentre nuovi palpiti e nuovi timori ve turbare il tenerello spirito, la
madre con cert'aria di maliziosa sorpresa sollevando qualche dubbio
sulla sincerità della preghiera della sera « Forse la non sarà stata
fatta come doveva ... ; i morti se ne saran arrecati ... ; e che vuoi
più doni e regali! » Né per questo cessando da sossopra masserizie e
vecchi arnesi il bambino va frugando anche riposto angolo della casa:
finché sul punto di abbandonare disilluso la fruttuosa ricerca, eccolo
saltar fuori tremante per una scoperta: u guantiera di dolci, di
frutta, di giocattoli, di abiti, premio all'aver ignorata la Vucciria.
I
dolci del basso volgo sono per i Morti i pupi di cena: guerrieri a
soldati, pedoni, signore, trombe, scarpette di zucchero fuso
comunemente appellato cena; questi pupi qualche settimana prima della
festa si vanno ríffando per la città, uso molto antico, che, qualche
volta, perché esteso anche ad altri giuochi di fortuna, venne proibito.
Le frutta sono infilzati a forma di ruota, mele, noci, castagne,
mortella, nocciole, avellane e in alcuni luoghi anche fave. Tra gli
abiti non può mancare un paio di stivaletti o di scarpe, anzi nell'Etna
i bambini la sera del 1 novembre sogliono preparare in un angolo della
casa un paio di ciabatte «'apparanu li scarpi », perchè i morti nella
prossima notte vi ripongano qualche cosa. Le ciabatte spariscono,
sostituite dalle scarpe nuove o da scarpine di zucchero; ma c’è anche
chi le trova ripiene di cenere o di qulche cosa non bella.
Abbiamo
pertanto i seguenti fatti, il 2 novembre giorno di strenne per i
fanciulli; i morti geni benefici per essi. Questi fatti son comuni a
nove decimi di tutta la Sicilia: a Palermo, Trapani, Messina, Catania *
(Tra gli Aneddoti siciliani del LONGO, nel capitolo XIX, pagina 39, si
parla di quest'uso in Catania), Girgenti; un decimo dell'isola conserva
l'uso antichissimo delle strenne, riconoscendole bensì da una
vecchiaccia sdentata e mostruosa, che pure vuol bene ai fanciulli; e
mentre un paesello la vede in un giorno, una città la vede in un altro:
differenza non capricciosa certamente né casuale, ma nata da
circostanze che alla mitologia etnica importerebbe conoscere per
apprestare nuova luce alla storia più o meno intima di questi usi.
I
giorni sacri alle strenne son due: il 24 dicembre e il 1 gennaio. Un
canto popolare di Siracusa, che è una specie di calendario delle feste
principali dell'anno, ha questi versi:
Jinnàru
porta la festa lu primu
Comu
si leggi ogn'annu a calennàriu,
Lu
primu jornu chi agghiorna è la Strina,
E
ddoppu d'idda veni San Macariu.
E
« Strina » o « jornu di la Strina » in molti luoghi si
rimanda il 1° dell'anno.
In
Acireale un tempo si gettava dai balconi « lu scàcciu
» (castagne, noci, fichi secchi); e c'è il motto:
E
li vecchi stanu tisi,
E
li giuvini agghimmati;
E
la Strina mi la dati?
In
Avola ed altri comuni del Siracusano, oltre ai consueti regali, se ne
fanno per questo giorno da fanciulli a fanciulli amici tra loro: e da
tutti si ritiene che chi riceve un dono dall'altro sia obbligato a
ricambiare da canto suo il donatore con altro regalo nel prossimo
giorno della Epifania.
In
Ciminna (provincia di Palermo) tra Termini Imerese e Ventimiglia, dove
víge ancora il costume generale dei morti, la sera del 24 dicembre,
giorno di strenne per il comune di Favara nella provincia di Girgenti,
nella quale esse han luogo il 2 novembre come a Mezzojuso (colonia
albanese), esce « La Vecchia di Natali », un fantoccio di vecchia
grinzosa, lacera, cui fanno seguito centinaia di monelli e di giovani,
altri sonando corni di bue, cerbottane e buccini di mare, altri
battendo campanacci, altri picchiando padelle, pentole e casseruole, ed
altri gridando a squarciagola: « La vecchia di Natali! La
vecchia di Natali! » grido che tra il chiasso e gli schiamazzi si fa
sentire in mezzo alla baraonda; e col grido fischi da abisso infernale.
Quella vecchia così in giro condotta, così male rappresentata, è colei
che la notte prossima dovrà arricchire di ninnoli, di giocattoli, di
cose mangerecce, di vestiti i fanciulli. In Polizzi Generosa *(La festa
della veccbia si celebra in Polizzi con tanta solennità che da paesi
più o meno vicini vi accorrono venditori a piantarvi bazarri, ove
specialmente abbondano panni, lane e sete d'ogni maniera, chè i doni
che per quella ricorrenza si fanno sono di molta e, per alcuni, di
grandissima spesa).
In
Alimena questa vecchia comparisce la notte dell'ultimo dell'anno; in
Corleone però la notte dal 30 al 31 dicembre; in Cefalù procede sopra
un cavallo condotto a mano da uno della comitiva, e la non è se non un
giovine mascherato. Dall'Ave a mezzanotte in Ragusa Inferiorela gente
viene assordata dagli urli, fischi e rumori di una turba di ragazzi che
intende festeggiare la sira di li viecci campanari, Nella limitrofa
popolazione di Ragusa superiore non si ha codesto baccano; questa
popolazione, come si sa, è colonia di Catania.
La
« La Vecchia di Natali » di Ciminna prende il semplice nome di
« Vecchia Strina »; in Corleone, quello di
«
Carcaveccbía », altrove quello di Befana. E notisi che in Vicari una
rappresentazione propriamente detta non ha luogo, perché la vecchia non
si fa, né si conduce in giro; si crede invece che la notte della
nascita del bambino, Gesù ella esca fuori dall'antico castello (anche
in Cefalù la « Vecchia Strina » rimane un intero anno chiusa e
nascosta entro il Castello), e scesa in città a piedi si tiri dietro
una funata di muli carichi di frutta, dolci, vestiti, e passando per le
vie si converta in formiche per lasciare i suoi doni ai fanciulli. *
(Questi regali della vecchia Strina sono bellissimi, Carmine Papa,
poeta rustico di Cefalù, nelle sue Poesie siciliane (Cefalù 1880) a
pagina 29 dice che essendo egli malato un suo amico gli........
Purtava
cosi di la vecchia Strina,
Lu
ciàuru lu faceva arricriari.
In
Corleone essa scende dalle rocche in mezzo alle quali il comune si
adagia e, dove sotto forma di uccello, dove sott'altra forma, entra a
riempire scarpe ad altri arnesi stati apparecchiati dai fanciulli.
Ed
ecco come e nomi e circostanze giovano talora alla illustrazione delle
cose popolari, e, nel caso nostro, ad accostare un personaggio,
lontanissimo in apparenza da qualunque altro, a quello che gran parte
d'Italia, di Francia, di Germania ecc. riconosce per autore delle
strenne di capodanno.
La
« Vecchia Strina » richiama almeno col nome dell’antichissima
Strenna dei Romani; mentre la Vecchia Befana è una stessa cosa con la
Befana del popolo italiano, che in Venezia dicesi Marantega.
Salto
a piè pari l'argomento, invero di facile erudizione, delle strenne, già
trattato fino alla sazietà da eruditi antichi e da mitologí moderni.
Dirò bensì d'un uso, molto importante a parer mio, quello di mangiar
fave il giorno dei morti. Già un primo cenno di fave abbiam veduto di
sopra a proposito dei doni ricevuti dai fanciulli. In Vicari il giorno
della Vecchia si fa ai poveri elemosina specialmente di fave, come in
Piemonte se ne fa di legumi cotti. Dico specialmente, perché oltre
delle fave si dà anche del pane, il quale è in forma di piccole pope
lunghe fino alla metà del tronco, colle mani in croce sul petto,
rappresentanti le anime del purgatorio e perciò l'armuzzi. (Le famiglie
agiate fanno e distribuiscono questi pani il primo lunedì d'ogni mese,
sacro alle Anime sante). Quelle fave i poveri credendole benedette le
seminano tutte fino a una in quei terreni che i proprietari per averli
coltivati e concimati fanno per un anno a favata affin di prepararli
alla seminagione del frumento; ed è superfluo il dire che, perché
benedette, esse daranno fave a bizzeffe. In Girgenti, (Agrigento) S.
Caterina, Palazzo Adriano fino al secolo passato (e forse fino al
presente) mangiavasi e dispensavasi in luogo di fave coccìa ai poveri.
In Acireale il 2 novembre il basso popolo suol mangiare a pranzo « li
favi 'n quasuni », che son le fave senz'occhio e bollite. Quest'uso
vigeva anche al secolo XVIII in Palermo (ove oggi invece si mangia
focacce e mortella nera), e il Villabianca vi trovò materia ad
osservazioni non tanto serie da doversi mettere in luce. Se io non mi
fossi proposto di non entrare in lunghi ragionamenti sulle tradizioni e
gli usi che vengo mettendo in evidenza, potrei dire che secondo gli
antichi le fave contenevano le anime dei loro trapassati: sacre ai
morti essendo le fave, e credendosi di vedere nei fiori di esse certi
caratteri neri neri (indizio di lutto) che si attribuivano agli dei
infernali. Potrei dire ancora che presso i Romani le fave avevano il
primo posto nei conviti funebri, e continuazione di siffatto uso esser
quello di Aci, che nelle modificazioni di Vicari e di altri comuni
rappresenta le modificazioni che l'uso gentilesco venne a subire
sott'altro aspetto col cristianesimo. il pranzo o la cena dei morti di
Monte Erice richiama al convito funebre dei popoli indo europei,
esistente già da tempi antichissimi e che colla nuova religione non
solo passò inalterato, ma anche crebbe a tal punto da doversene
interessare la Chiesa.
S.
Ambrogío, infatti, ebbe a proibire banchetti che i cristiani andavano a
fare sulle tombe dei martiri il 2 novembre, cioè il domani in cui i
gentili erano soliti festeggiare tutti gli dei del Panteon. Quindi,
nota il Gabriele Rosa, prevalse l'uso che in luogo recare vettovaglie
alle tombe. queste si distribuiscono ai poveri alle case ricchi. Così
si spiega perché nel giorno dei morti o, come nel Friuli, il giorno
d'Ognissanti, ogni famiglia dispensi al popolo una quantità di pane o
di minestra di pasta e legumi a seconda della propria agiatezza,
intendendo suffragare le anime dei defunti.
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